Associazione Sentiero Rosso ONLUS

Dal 1999 a fianco dei Nativi Americani

Viaggi nelle riserve dei nativi americani: programmi ed itinerari futuri

Dal 1999 nelle riserve indiane. Vieni con noi nelle riserve per aiutare i lakota, gli apache, i navajo, gli hopi, gli zuni, i cherokee ecc. a preservare la loro cultura, le loro cerimonie, la loro storia. 

 

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Luoghi e Località

Alcuni luoghi ed alcune località che solitamente visitiamo durante i nostri viaggi annuali nelle riserve dei nativi americani.

Libri

Sezione dedicata ai libri, soprattutto scritti da ragazzi  "freelance"

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Un grande artista, Oglala, che insegna ai ragazzi come fabbricare ed usare gli archi tradizionali, acquistabili da tutti.

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racconti antichi degli indiani d'america

I RACCONTI ANTICHI DEGLI INDIANI D'AMERICA


I racconti fatti direttamente dagli indiani rivelano un enorme importanza storica, per la ricchezza dei particolari indicati, per la interpretazione degli avvenimenti e per il loro pensiero nella vita di tutti i giorni.
E’ importante conoscere la vita quotidiana, in tutti i suoi aspetti, di uomini che crescevano liberi e con un amore e rispetto per la natura, per la vita e per il Potere Supremo; uomini che vivevano e lottavano molto duramente, ma che trovavano anche il tempo di giocare e di meditare sulla bellezza e sul mistero del mondo.
RACCONTI ANTICHI DI INDIANI
Scritti e testimonianze degli Indiani d’America, raccolte da Charles Hamilton in “Sul Sentiero di Guerra” –Feltrinelli 1956.
(i costumi descritti devono essere considerati e riferiti solo alla tribù di appartenenza di colui che racconta)
I DIVERTIMENTI DEGLI INDIANI A CONTATTO CON LA NATURA
Gli indiani eccellevano nelle competizioni sportive che richiedevano prontezza e abilità atletica. Quando non erano a caccia o sul sentiero di guerra, dedicavano molta parte del loro tempo alla lotta, alle gare di tiro a segno con frecce e coltelli, alle gare podistiche, nonché alle partite di palla tra le diverse tribù e alle corse di cavalli.
GIOCHI DEI BAMBINI SIOUX
di Ohiyesa, Sioux.
da Indian Boyhood, pp. 63-75
Ohiyesa (dott. Charles A. Eastman), il più famoso di tutti gli scrittori indiani, nacque nel 1858 nei pressi di Redwood Falls, nel Minnesota, e fuggì con suo zio nel Canadà, dopo il massacro del Minnesota, avvenuto nel 1862. fino all’età di quindici anni visse fra i Sioux Santee. Frequentò la scuola della missione a Santee, nel Nebraska; uscì dal liceo di Dartmouth nel 1877 e tre anni dopo si laureò all’Università di Boston; dopo un periodo, che non gli portò che amarezze e delusioni, in cui esercitò la professione di medico del governo presso l’agenzia di Pine Ridge, nel Sud Dakota, intraprese il libero esercizio della professione. Incoraggiato dalla moglie (Elaine Goodale), Ohiyesa si mise a scrivere, in pari tempo tenendo delle conferenze, e dopo la pubblicazione del suo primo libro, Indian Boyhood (Fanciullezza Indiana) del 1902, fu considerato un’autorità per quanto riguardava i Sioux. Fino alla morte, avvenuta nel 1939, Ohiyesa continuò a scrivere libri e articoli, notevoli soprattutto per l’ampio e bello stile.
Racconta: Ohiyesa (dott. Charles A. Eastman).
L’ambiente è quello della Columbia Britannica fra il 1865 e il 1870.
Il ragazzo indiano era il re dei grandi spazi deserti. Durante l’infanzia, aveva ben poco da fare. La sua occupazione principale consisteva nel praticare qualche semplice esercizio di guerra e di caccia. A parte ciò, poteva disporre liberamente del suo tempo.
Qualsiasi cosa si richiedesse da noi ragazzi, la si sbrigava in fretta, e poi avevamo campo libero per giocare e divertirci. Tra noi avevano sempre luogo gare accanite; ci mettevamo lo stesso entusiasmo che i nostri padri mettevano nella caccia e nella guerra, ciascuno sforzandosi di prevalere sugli altri. E’ vero che la nostra vita libera era piuttosto precaria e funestata da terribili catastrofi, tuttavia questo non ci impedì mai di divertirci fino in fondo. Quando al mattino lasciavamo il tepee, non eravamo mai sicuri che al pomeriggio i nostri scalpi non avrebbero penzolato in cima a una pertica! Era una vita sospesa a un filo, questo è certo, eppure attorno a noi i cerbiatti saltavano e giocavano felici, anche se, magari, i lupi grigi li adocchiavano da dietro le colline, pronti a sbranarli.
I nostri giochi erano modellati sulla vita e i costumi del nostro popolo; in realtà, non facevamo altro che esercitarci a quello che avremmo dovuto fare da grandi. I nostri esercizi consistevano in gare con arco e frecce, corse a piedi e a cavallo, lotta, nuoto, e imitazione delle usanze e dei modi di fare dei nostri genitori. Giocavamo alla guerra con palle di fango e bacchette di salice; praticavamo il gioco del “lacrosse”, facevamo guerra alle api e slittavamo sulla neve servendoci di costole di animali e pelli di bufalo.
I ragazzi non si mettevamo mai a giocare prima di dividersi, di regola, in squadre, e scegliere il campo; poi, per dare inizio al gioco, si tirava a caso per aria una freccia. Prima che questa toccasse terra, da tutti i nostri archi partiva una scarica; ciascun giocatore aveva subito rilevato la direzione e la velocità della prima freccia, e cercava di scagliare la propria alla stessa altezza e con la medesima velocità, in modo che cadendo si venisse a trovare più vicina alla prima di tutte le altre. Neanche da pensare a raggiungere, al primo colpo, l’oggetto preso di mira: in pratica, di solito, era impossibile, trattandosi quasi sempre di oggetti in movimento, mentre il cacciatore si trovava spesso in groppa a un cavallo lanciato al galoppo. Di conseguenza, il ragazzo indiano cercava di raggiungere piuttosto la massima velocità nel tiro.
Le corse di cavalli erano all’ordine del giorno. A mezzogiorno, di solito i ragazzi si riunivano presso qualche bello specchio d’acqua e dopo che i cavalli s’erano rinfrescati, li si lasciava pascolare in libertà per un’ora o due, mentre i ragazzi si spogliavano e si preparavano agli esercizi. Ecco allora, ad esempio, un ragazzo rivolgersi a un altro che riteneva suo pari, dicendo:
“Oggi corro male, ma ti do lo stesso cinquanta passi di vantaggio.”
Un giovane eroe, in caso di sconfitta, c’era da aspettarsi che si giustificasse con un: “ Devo aver bevuto troppa acqua.”
Infine c’era il nuoto: ed ecco un marmocchio aggrapparsi alla coda del suo cavallo, e questo, con solo la testa fuori dall’acqua, fendere bravamente la corrente. Alla fine, spingevamo gli animali in un bel prato e ci dedicavamo ad altri passatempi.
Il “Lacrosse” era un vecchio gioco praticato solo dai Sioux Sisseton e Santee. Il pattinaggio, identico a quello con cui si divertono i ragazzi bianchi sul ghiaccio, è praticato ancor oggi dai Sioux dell’Ovest nelle Grandi Praterie. Il “gioco del mocassino” (simile alla nostra caccia al tesoro), benché a volte fosse praticato anche dai ragazzi, era per lo più riservato agli adulti.
La “lotta del fango e del salice” era invece un gioco serio e pericoloso. Si poneva un blocco di molle argilla all’estremità di una bacchetta di salice, flessibile ed elastica, e la si scagliava con una certa forza. Quando c’erano cinquanta o magari cento giocatori per parte, il combattimento diventava accanito; ma qualsiasi cosa servisse a mettere alla prova il coraggio dei ragazzi indiani, pareva loro un divertimento sano e bello.
La lotta era largamente praticata da tutti noi. Può sembrare strano, ma vi partecipavano moltissimi ragazzi alla volta – da dieci in su per parte – senza limitazione di numero. Era una vera e propria battaglia, nella quale ciascuno sceglieva il suo avversario. Di regola, se un ragazzo era messo a terra, non veniva toccato, ma fintantoché rimaneva in piedi, doveva aspettarsi di essere attaccato. Nessuno tirava pugni, ma erano permessi ogni sorta di sgambetti e di colpi con le ginocchia, per cui risultava una cosa massacrante – non meno del gioco americano del calcio – e solo i giovani atleti erano in grado di praticarlo a regola d’arte.
Uno dei nostri giochi più curiosi era la guerra agli alveari delle api selvatiche. Fingevamo di attaccare gli Ojibway o qualche altro nemico della tribù. Ci dipingevamo da capo a piedi e ci avvicinavamo quatti quatti agli alveari; poi, con un balzo ed emettendo il grido di guerra, ci gettavamo sull’oggetto del nostro attacco allo scopo di distruggerlo. Ma, a quanto pareva, le api erano sempre sul chi vive, e non riuscivamo mai a coglierle di sorpresa, perché il risultato era sempre un numero di scalpi equivalente a quello dei baldi assalitori! Al termine della carica contro l’alveare, di solito eseguivamo una specie di danza degli scalpi.
Quando feci la mia prima esperienza in questo genere di battaglia, c’erano con me due altri ragazzini novizi al pari di me. uno dei due, soprattutto, era troppo piccolo per partecipare a imprese del genere. Siccome era usanza della nostra gente, quando s’uccideva o feriva un nemico sul campo di battaglia, di darne notizia ad alta voce, noi facevamo lo stesso. Il mio amico Piccola Ferita (lo chiameremo così, perché non ricordo più il suo nome), essendo piccolissimo, raggiunge l’alveare, solo quando questo era stato calpestato e fatto a pezzi, e gli insetti s’erano a loro volta lanciati all’assalto con una tale violenza, da farci indietreggiare e disperderci in ogni direzione. Ma il piccolo, evidentemente, non voleva ritirarsi senza essersi fatto onore, perciò saltò sull’alveare urlando: “Io, il coraggioso Piccola Ferita, uccido il crudele nemico!”
Aveva appena finito di pronunciare queste parole, che si mise a strillare, come se l’avessero pugnalato al cuore. Uno dei suoi compagni più grandi gridò: “Buttati in acqua! Dai! Buttati in acqua!” c’era infatti un lago poco distante e, il piccolo non se lo fece dire due volte.
Quando ci fummo riuniti, e ci mettemmo ad eseguire la nostra pantomima, Piccola Ferita non fu ammesso alla danza. Lo si considerava morto, ucciso dai nostri nemici, la tribù delle Api. Povero bambino! Se ne stava seduto su un tronco a osservare la danza, triste e vergognoso, col faccino tutto gonfio. Benché si fosse fatto onore come uno dei nobili combattenti caduti per il proprio paese, pure non riusciva a togliersi dalla testa l’idea che s’era lasciato sfuggire uno strillo e questa sua debolezza gli sarebbe certo tornata alla mente in futuro.
Avevamo anche dei giochi un po’ più tranquilli, che alternavamo a quelli più movimentati e bellicosi; e tra essi figuravano il lancio dei bastoni e le battaglie a palle di neve. D’inverno slittavamo; non avevamo “assicelle doppie” o slitte, ma sei o sette lunghe costole di bufalo, legate assieme all’estremità più grossa, rispondevano ugualmente bene allo scopo. A volte si usava con notevole abilità un pezzo di corteggia di tiglio, lungo un metro e trenta e largo circa quindici centimetri. Noi ci appollaiavamo ad una delle estremità e ci tenevamo aggrappati all’altra, rivolgendo all’esterno la parte interna e scivolosa della corteccia, e così ci lasciavamo andare lungo il fianco delle colline a notevole velocità.
Con la trottola, si faceva uno dei giochi invernali più emozionanti. Ci fabbricavamo le trottole a forma di cuore, usando legno, corno, od osso. Da frusta serviva una lunga striscia di pelle di capriolo con un manico di legno lungo una trentina di centimetri, che a volte s’intagliava all’estremità a forma di cucchiaio.
Con queste trottole facevamo delle gare, alle quali prendevano parte da due a cinquanta ragazzi per volta. Ciascuno frustava la sua trottola, finché questa si metteva a ronzare; poi, uno prendeva una direzione, e tutti gli altri dietro, in una specie di corsa a ostacoli: la trottola non doveva fermarsi mai. C’erano dei mucchi di neve sui quali dovevamo spingerla servendoci della spatola con cui terminava la frusta; e di qui farla volare su un altro punto della distesa di ghiaccio o di una liscia superficie nevosa, a venti, magari cinquanta passi di distanza. Vinceva che faceva arrivare più lontano la sua trottola.
A volte, giocavamo alla “danza di medicina”, che, per noi, equivaleva al “giocare alla chiesa” dei bambini bianchi, ma pareva che la nostra gente considerasse azione irriverente l’imitare quelle danze per cui le nostre esecuzioni avevano luogo in segreto. Eravamo soliti stare ad osservare tute le cerimonie importanti, e per ripetere le movenze drammatiche della danza era necessario possedere un certo senso teatrale. Le danze dei grandi si protraevano per un giorno e una notte, e il programma era lungo e variato, cosicché non era facile riprodurre esattamente tutti i particolari; ma i bambini indiani sono imitatori nati.
Di tanto in tanto, giocavamo anche all’ “uomo bianco”. La nostra conoscenza dei visi pallidi era limitata, ma avevamo sentito dire che ogni qualvolta arrivavano, essi portavano merci, in cambio delle quali la nostra gente dava loro pellicce. Sapevamo anche che avevano la carnagione pallida, peli corti in testa e peli lunghi in faccia, che indossavano giacca, calzoni e cappello, e di giorno non si coprivano con le coperte. Questa, l’immagine che ci eravamo formati dell’uomo bianco.
Perciò pitturavamo con della creta bianca due o tre di noi, e mettevamo loro in testa dei cappelli di scorza di betulla che avevamo fabbricato apposta; legavamo loro un pezzo di pelliccia intorno al mento per imitare la barba; in una parola, facevamo del nostro meglio per travestirli. Bianche cortecce di betulla servivano a fingere le camicie bianche.
Le mercanzie consistevano in sabbia al posto dello zucchero, fagioli selvatici per il caffé, foglie secche per il tè, terra polverizzata per la polvere da sparo, sassolini per le pallottole, e acqua pura per la pericolosa “acqua di fuoco”. Compravamo queste merci con pelli di scoiattolo e di coniglio, e penne di uccellini.
Quando giocavamo alla “caccia al bufalo”, mandavamo qualche ragazzo che sapesse correre bene nell’aperta prateria con una scorta di carne; poi partivano altri ragazzi ugualmente veloci, per inseguirli e catturare il cibo. Una volta, eravamo intenti a questo gioco, mentre si svolgeva una caccia vera in cui erano impegnati gli uomini della tribù; non ci rendemmo conto che questo avveniva a brevissima distanza dal luogo in cui ci trovavamo, fino al momento in cui, nel bel mezzo del gioco, non vedemmo un enorme bufalo dirigersi a tutta velocità verso di noi. La nostra imitazione della caccia al bufalo si trasformò in una oltremodo realistica paura del bufalo. Per fortuna, eravamo vicini al limite del bosco e in un baleno sparimmo fra la vegetazione come una covata di giovani tacchini, a alcuni si nascosero fra la sterpaglia, mentre altri si rifugiarono in cima agli alberi.
Ci piaceva molto giocare nell’acqua. Se non avevamo cavalli, spesso ci cimentavamo in gare di nuoto fra di noi, e a volte fabbricavamo delle zattere con le quali traversare laghi e fiumi. Era una cosa piuttosto comune “far bere” un ragazzino piccolo o timido, oppure spingerlo nell’acqua profonda e lasciare che se la cavasse come meglio poteva. Mi ricordo di un pericoloso viaggetto con un mio compagno, a cavalcioni di un tronco ribelle, quando ambedue non avevamo ancora sette anni. I ragazzi più grandi di noi ci avevano messi su quella malsicura imbarcazione e spinti nella rapida corrente del fiume. Non so come la pensi il mio compagno di sventura, ma adesso posso dire che preferirei andare tutti i giorni su un veloce bronco, piuttosto che tentare di mantenermi in equilibrio su un corto tronco in mezzo a un fiume. Non sono mai riuscito a capire come abbiamo fatto a evitare il naufragio e a raggiungere la riva.
Avevamo molti strani beniamini selvatici, fra i quali cuccioli di volpi, orsi, lupi, procioni, cerbiatti, vitellini di bufalo, e uccelli d’ogni specie, addomesticati da questo o da quel ragazzo. I miei beniamini cambiavano a seconda del momento, ma ne ricordo soprattutto uno: un orso grigio, e per quanto riguarda lui e me, i nostri rapporti erano ottimi. Ma non saprei dire se fosse lui a procurare più nemici a me, o io a lui. Aveva l’abitudine di trattare malissimo ogni ragazzo che mi insultava, ed era visto di malocchio per il modo con cui si comportava per difendermi, mentre io ero odiato per via dell’orso.
GIOCHI DEI BAMBINI HOPI
di Don C. Talayesva, Hopi.
da Sunchief: the autobiography of o Hopi , a cura di Leo W. Simmons, p. 62
Talayesva custode del Kiva (pozzo sacro) della Collina del Sole appartenente alla sua tribù, nacque nel 1890 e crebbe fra gli Hopi a Oraibi, nell’Arizona. A dieci anni, iniziò lo studio dell’inglese. “Imparai ben poco il primo anno di scuola, “ scrisse più tardi; “ sapevo dire soltanto – bravo ragazzo, buon ragazzo, sì, no, chiodo, e caramella.” Tuttavia, riuscì ad imparare la lingua ed accettò i costumi degli uomini bianchi, ma più tardi fece ritorno al suo antico villaggio. Fra il 1938 e il 1941, con l’aiuto del Simmons, scrisse la storia della propria vita.
Racconta: Talayesva.
L’ambiente è quello dell’Arizona attorno agli anni 1890.
Avevamo imparato a prendere gli scarafaggi e farli andare in circolo: li chiamavamo i nostri “cavalli selvaggi”, ma ci avevano ammoniti di non far loro mai del male, perché, a quanto i vecchi dicevano, erano buoni per curare certe malattie. Non giocavo mai con i ragni, per via della loro madre, la Donna Ragno. Non davo mai noia ai falchi e alle aquile appollaiate sui tetti delle case (uccelli in cattività, usati nelle cerimonie religiose), perché ci avevano detto che erano creature sacre.
Fabbricavamo collane di rospi cornuti e ce le mettevamo intorno al collo. Dicevano i vecchi: “ non date troppo fastidio ai rospi; sono spiriti, e ci possono aiutare. “se prendevo in mano una lucertola o un rospo cornuto, non ne avevo affatto paura. Una volta trattai male un rospo, e quello mi morse. Questo mi servì da lezione. Mi sarei ben guardato dal legare un rospo con una funicella, appendendolo al collo di un altro ragazzo, perché questi avrebbe potuto gettare via il rospo in malo modo, facendolo arrabbiare, e così sarebbe successa una disgrazia. In un primo tempo avevo preso l’abitudine di raccogliere piccoli serpenti, ma più tardi imparai che non era una cosa ben fatta. Un giorno ne uccisi uno piccolissimo, e fu qualcosa di spaventoso.
Davamo la caccia ai polli, bersagliandoli con pannocchie e con frecce finte con cui giocavamo. Eccitavamo i galli per divertirci a vederli combattere. Mio nonno mi insegnò che i polli erano gli animali prediletti dal dio Sole.
“Il canto dei galli, al mattino presto, è importante,” diceva: “Il dio Sole li ha mandati in terra per destare la gente. Egli fa squillare una campanella per far capire ai galli quando è ora di annunciare l’aurora ed essi cantano quattro volte prima che sorga il sole.”
GIOCHI DELLE TRIBÙ DELL’EST
di Capo Kah-ge-ga-gah-bowh ( George Copway), Ojibway
da Traditional History and Characteristic Sketches of the Ojibway Nation , pp. 47-56.
Capo Kah-ge-ga-gah-bowh (George Copway), nacque nel Canadà centrale nel 1818. Egli descrisse se stesso come “un figlio della natura.” Egli era noto come grande cacciatore e uomo di straordinaria forza fisica. Una volta, portò cento chili di farina, caffè, munizioni e zucchero sulla schiena, per circa mezzo chilometro, senza mai fermarsi. Nella primavera del 1841 traversò l’intero Wisconsin per avvertire gli Ojibway dell’arrivo di una spedizione di guerrieri Sioux. “Percorsi una media di centotrenta chilometri al giorno. – egli scrisse - e arrivai a mezzogiorno del quarto giorno. Avevo percorso quattrocentocinquanta chilometri, guadato otto grandi fiumi, e passato due volte a nuoto il Mississippi.” Nel 1830, si convertì al metodismo e trascorse due anni all’Accademia Ebenezer nei pressi di Jacksonville, nell’Illinois.
Fino alla morte, avvenuta nel Michigan verso il 1863, trascorse gran parte del suo tempo a scrivere e tenere conferenze sui maggiori problemi indiani.
Racconta Capo Kah-ge-ga-gah-bowh (Gorge Copway).
Tali giochi erano in uso presso quasi tutte le tribù del Vecchio Nord-Ovest durante il XVII e XVIII secolo.
I giochi che sto per descrivere sono quelli praticati più comunemente dalla gente della mia nazione. Uno dei giochi più popolari è quello della palla (lacrosse, ora gioco nazionale del Canadà) che spesso vede impegnato un intero villaggio. Le squadre sono composte da un numero di giocatori variante da dieci a parecchie centinaia. Prima di cominciare, quelli che prenderanno parte al gioco devono versare ciascuno la propria puntata o gli oggetti che fanno da posta al gioco, e inoltre scegliere un capitano per parte. Ogni capitano, poi, designa un compagno di squadra cui affidare le puntate. Ogni uomo e ogni donna (a volte infatti giocano anche le donne) è armato di un bastone, che da una parte termina con qualcosa che somiglia a un anello, di circa dieci centimetri di circonferenza, al quale è appesa una reticella fatta di pelle, profonda cinque centimetri, della misura esatta della palla con cui si gioca. Due pertiche piantate nel terreno a una distanza di quattrocento passi l’una dall’altra, servono da meta per le due squadre. Ciascuno si sforza di far entrare la palla nella propria reticella. La squadra che porta la palla a colpire la pertica, vince la partita.
I guerrieri seminudi, giovani e audaci, fantasiosamente dipinti, e le donne adorne di penne, si stringono attorno ai capitani, che di solito sono campioni di corsa. Devono passarsi la palla sia raggiungendosi a vicenda di corsa, sia lanciandola, e se la palla cade in mezzo alla folla dei giocatori, succede un parapiglia. I bastoni oscillano e roteano, i giocatori continuano a correre urlando, cadono e montano uno sull’altro, e nella confusione qualcuno esce dalla mischia piuttosto malconcio. Ogni qualvolta la palla tocca terra, il giocatore che si trova vicino la raccoglie subito, e fila a tutta velocità, inseguito da tre o quattro altri che corrono al pari di lui, incoraggiati dalle grida dei compagni di squadra: “Ha! Ha! Yah!” , “A-ne-gook!”. E tali urla si odono perfino dalle capanne lontane, perché tanto i bambini che gli adulti si entusiasmano molto alla scena. Il loro interesse non è diretto solo ai premi, ma anche ai capitomboli dei giocatori che ruzzolano uno sopra l’altro. Le urla e le grida allegre degli spettatori, che s’affollano sulla soglia dei Wigwam, s’alzano in un coro ininterrotto e danno la misura della loro allegria.
I giocatori ricevono certi colpi di cui, dopo l’incontro, sono chiaramente visibili i segni. Si possono usare mani e piedi, e i contendenti se ne servono egregiamente, e scagliano in alto la palla con tale abilità, da farla scomparire alla vista. Un altro la riprende nella parabola discendente, e a volte il gioco è manovrato così bene, che la palla può non toccare terra anche per dieci minuti di fila.
Non si è mai dato il caso di uno il quale si lamenti, anche se ha preso una bastonata tale, da fargli sanguinare il naso. Se gli capita quest’ultima disgrazia, si rialza in un batter d’occhio, e scoppia a ridere forte come gli altri, anche se è inondato da un fiotto di sangue.
E’ rarissimo, semmai, che qualcuno si mostri arrabbiato per essersi fatto male. Se lo facesse, gli darebbero del vigliacco, a questo è un freno sufficiente in quei casi in cui l’incidente sembra prodotto a bella posta. Il “gioco del mocassino” è semplice, e lo si gioca in due o tre. Tre mocassini servono per nascondere le pallottole che si usano per giocare. Questo a volte diventa talmente interessante che un indiano mette come posta il suo fucile, poi le sue trappole di acciaio, poi l’equipaggiamento di guerra; poi i vestiti, e, da ultimo, il tabacco e la pipa, restando come diciamo noi Nah-bah-wan-yah-ze-yaid vale a dire solo con un pezzo di stoffa stretto alla vita da un laccio.
Il “gioco del lancio” è poco noto ai bianchi. Lo si gioca nel wigwam. Si adopera un nocchio oblungo di cedro, lungo diciassette o diciotto centimetri, all’apice del quale si lega una cordicella lunga una quarantina di centimetri. All’altra estremità del laccio, c’è invece un bastoncino lungo sei o sette centimetri e molto appuntito; la cordicella si tiene in mano, e se il giocatore colpisce il pezzo di legno più grosso ogni volta ogni qualvolta cade dalla parte appuntita, vince.
Il “gioco dell’osso” è un altro passatempo praticato in casa, ed è chiamato così, perché ci si serve di un oggetto ricavato dai garretti dei daini. Ogni osso viene forato alla estremità, e se ne fissano assieme da tre a dieci. Per giocare si adopera il solito bastoncino appuntito, che viene scagliato nelle cavità delle ossa.
Senza dubbio, il più interessante di tutti è il gioco della palla fra ragazze,” vale a dire, in lingua Ojibway, il Pah-pah-se-kah-way. Per lo più quelle che prendono parte al gioco sono giovani fanciulle, ma vi sono ammesse anche le donne sposate. La palla è fabbricata con due sacchetti di pelle di daino, lunghi circa dodici centimetri e mezzo legati assieme in modo che tra l’uno e l’altro ci sia una distanza di diciassette o diciotto centimetri; e la si lancia con un bastone lungo circa un metro e mezzo. Questo gioco viene praticato d’estate, all’ombra di grossi alberi; ogni ragazza punta verso la propria meta, o tahwin, e cerca di raggiungerla con la palla. Le mete vengono assegnate al mattino, e le giovani donne del villaggio si preparano per la giornata, tingendosi le guance di vermiglio, togliendosi tutti i capi di vestiario non strettamente necessari, e acconciandosi i capelli i capelli con penne colorate che ricadono fino a terra.
All’ora fissata, l’intero villaggio si raduna, e i giovanotti, le cui innamorate figurano tra le partecipanti, continuano a girarsi di qua e di là, lanciando sguardi d’intesa alle loro belle e ricevendone in cambio luminosi sorrisi.
C’è la stessa confusione che si nota quando giocano gli uomini. Le squadre si buttano nel gioco con ardore non appena la palla è stata lanciata in aria; nessuna giocatrice si preoccupa degli incidenti che le possono capitare, anche se si tratta di colpi abbastanza duri; le ragazze si alzano lanciando uno strillo acuto, e non si capisce bene se piangono o ridono, e poi si trascinano un po’ zoppicanti dietro le altre, gridando, mentre le spettatrici lanciano grandi strilli: si sentono grida di “Ain goo”, che sembrano il verso dei colombi, dei quali sono una discreta imitazione. I premi di solito consistono in lacci lavorati, mocassini, stivaletti, e colore per le guance. A volte, i capi del villaggio mandano prima che abbia inizio la partita, un involto, il cui contenuto sarà distribuito tra le ragazze che avranno riportato la vittoria.
GIOCHI ALL’APERTO DEGLI INDIANI DELLE PRATERIE
di Gamba di Legno, Cheyenne.
da A.Warrior who fought Custer, a cura di Thomas B. Marquis , pp. 39-45.
Nel 1930 il Marquis raccolse l’autobiografia di Gamba di Legno, un Cheyenne del Nord, nato fra le Colline Nere nel 1858. egli, dopo aver preso parte, nel 1876, alla battaglia di Custer, dettò la propria biografia facendosi capire a gesti, e solo di tanto in tanto scriveva qualche parole inglese. Lo aiutarono, in questo, alcuni elementi della sua stessa tribù, che controllavano e confermavano le sue affermazioni.
Racconta: Gamba di Legno, (Cheyenne).
I giochi descritti erano quelli praticati dalla maggior parte degli indiani delle Praterie nel XIX secolo.
Soprattutto le competizioni sportive erano quelle che ci interessavano. Si organizzavano corse di cavalli, gare podistiche, incontri di lotta, gare di tiro a segno con fucile e frecce, lancio di frecce a mano, gare di nuoto, di salto, e d’altro genere. Di solito, nella tribù, tali competizioni avvenivano tra i rappresentanti dei guerrieri appartenenti ai tre clan, quello dell’Alce, quello del Cane Pazzo, e quello della Volpe. Se insieme era accampata una tribù di Sioux o un altro gruppo abbastanza numeroso, gli incontri avvenivano tra i rappresentanti delle due tribù. Si facevano scommesse su ogni tipo di gara e si puntavano coperte, cavalli, abiti, gioielli, camicie, uose, mocassini, in una parola qualsiasi oggetto personale. La puntata era sempre alla pari. Gli oggetti venivano ammucchiati su una coperta, da una parte quelli di una scommettitore, dall’altra quelli del concorrente. Poi i vincitori si prendevano tutto e lanciavano alte grida di vittoria.
I guerrieri dell’Alce, il clan al quale appartenevo io, contavano nelle loro fila i migliori corridori. Il nostro uomo più veloce si chiamava Apache. Era alto quasi come me, ma molto più massiccio, e aveva cosce enormi. Una volta mentre eravamo accampati insieme agli Ogallala sulle rive del Fiume della Polvere, organizzammo una gara tra i campioni delle due tribù. Il corridore Ogallala era un tipo alto e snello: si chiamava Gambe Nere. Il percorso della gara era di circa millecinquecento metri o almeno lo credo, perché allora noi non avevamo misure per la distanze. Quattro amici per ciascuno accompagnarono i due contendenti al punto di partenza. Un colpo di pistola diede il segnale. Negli ultimi metri, il Sioux s’abbatté esausto. Anche Apache, il nostro campione, era stanchissimo, ma riuscì a coprire l’intero percorso. Naturalmente, i Cheyenne si presero tutte le puntate, innalzando un coro di evviva e sparando in aria con i fucili. “La medicina cheyenne gli ha spezzato le gambe”, dissero i Sioux quando l’uomo crollò.
Il vecchio capo Piccolo Lupo da giovane era stato un grande corridore, particolarmente adatto alle grandi distanze. Quella volta, tolto che si fu l’accampamento, i Cheyenne e gli Ogallala presero a marciare di conserva, e strada facendo si udivano molte battute, come: “Credo che i Sioux siano capaci di spostarsi più rapidamente dei Cheyenne” oppure : “Pare che i Cheyenne debbano andare un po’ più piano del solito per non lasciare indietro i loro amici Sioux”. Alla fine, un giovane Sioux sfidò per scherzo Piccolo Lupo a una gara di corsa.
“Come no,” accettò Piccolo Lupo,” certo che correrò con te.”
La carovana si arrestò e venne organizzata la gara. A quel tempo, Piccolo Lupo aveva già superato la cinquantina mentre lo sfidante Sioux era nel pieno della giovinezza. Ciò nonostante, i cheyenne scommisero senz’altro sul loro capo. Sulle coperte per raccogliere le puntate venne deposto un gran mucchio di oggetti. Quattro cheyenne e quattro sioux andarono coi due fino al punto di partenza stabilito, a cinque o sei chilometri di lì. Al segnale dato un colpo di pistola, la gara cominciò. Fino all’ultimo chilometro il giovane Sioux si mantenne decisamente in testa, ma poi cominciò a rallentare. Fu chiaro, invece, che Piccolo Lupo non aveva mai cambiato passo, perciò accorciò le distanze e, nell’ultima parte del percorso, andò in testa mantenendo sempre la stressa andatura, mentre la velocità dell’altro seguitava a diminuire. Piccolo Lupo vinse la gara con più di cento metri di vantaggio. Molto Sioux, anche qualcuno di quelli che avevano perso le scommesse, s’unirono ai Cheyenne per applaudire il vecchio.
Buon lottatore e uomo in possesso di forza eccezionale era Piccolo Falco. Assieme a Gobba-di-Bufalo, e a Lupo Coraggioso, costui una volta andò a razziare per gioco nell’accampamento, dopo che una grossa spedizione di cacciatori era tornata riportando un gran numero di bufali. Tutt’attorno all’accampamento si drizzavano pali carichi di carne posta a seccare. I tre giovanotti non avevano avuto fortuna a caccia, perciò decisero di prendere in prestito un po’ di roba dagli amici, e si diressero verso un tepee.
“Abbiamo bisogno di carne”, “affermarono”. I vostri pali sono sovraccarichi, e noi tre pensiamo che qui si potrebbe fare rifornimento. Ma Piccolo Falco intende lottare per ottenerla; se qualcuno di voi riuscirà a metterlo a terra, non porteremo via neppure un briciolo della vostra carne”.
Ma nessuno dei presenti accettò la sfida, e accadde la stessa cosa: tutti gli uomini presenti ebbero paura di battersi con Piccolo Palco, e anche qui i tre ladri per scherzo si rifornirono, attingendo alle abbondanti provviste. Nel tepee successivo, la faccenda fu un po’ più complessa. Dopo qualche scambio di parole, l’inquilino del tepee il quale parlava a nome di tutti gli altri disse: “Ecco qua Coscia Grossa: dice che si batterà con te.”
Si accordarono sulle condizioni dell’incontro. I due contendenti tennero addosso solo i pantaloni. Si riunì un gruppetto di spettatori, che ben presto diventò una vera e propria folla. Coscia Grossa e Piccolo Falco apparivano ugualmente fiduciosi nell’esito dell’incontro. Ed eccoli afferrarsi: tiravano, spingevano, saltavano, ora pareva in vantaggio uno, e ora l’altro. La folla degli spettatori urlava e ballava; c’era qualche sostenitore che applaudiva, ma per lo più trattava solo di manifestazione di gioia, per il piacere di assistere a quel combattimento fra i campioni della tribù. Dopo parecchi minuti di dura lotta senza un attimo di respiro, Piccolo Falco cominciò a calare e ad afflosciarsi. Coscia Grossa bloccò le braccia del suo avversario e lo mandò a finire cavalcioni sulla schiena del vinto e gli buttò addosso un pugno di fango. Raccolse anche una coperta piegata che era lì vicino, e se ne servì a mo di molle bastone, intendendo per quel gesto, ridurre in assoluta sottomissione il già sconfitto Piccolo Falco. Grida di congratulazioni salutarono il vincitore, mentre risa di scherno venivano rivolte all’indirizzo del perdente e dei suoi due alleati. A Lupo Coraggioso e Gobba-di-Bufalo, scherniti, pieni di vergogna e costretti a restituire la carne di cui s’erano impadroniti non restò che correre a nascondersi.
Spesso venivano organizzate gare di tiro a segno con fucili, pistole e frecce. Per le gare con le frecce, di solito il bersaglio era una sagoma umana di legno. A volte le frecce venivano tirate con l’arco, altre volte scagliate a mano. In ambedue i casi si teneva conto della precisione e della forza del tiro. Un’altra prova di abilità era rappresentata dal tiro con l’arco a breve distanza, e qui importanti elementi di successo erano un arco resistente e un braccio robusto. In tutte queste gare, di regola venivano concessi quattro tiri successivi a ogni contendente. Roba d’alta scuola erano i tiri a breve distanza, con cui si cercava di colpire perpendicolarmente un’altra freccia già scoccata da un avversario. Per lo più,i nostri fucili erano ad avancarica, e di solito le nostre pistole eran di quelle a capsula, con i proiettili fabbricati a mano. Il bersaglio da colpire con le armi da fuoco, di regola era rappresentato da un cerchio nero, largo come una mano, tracciato sulla scapola spolpata di un animale o su un albero scortecciato. Alle gare, con frecce o armi da fuoco che fossero, prendevano parte squadre di tre o più guerrieri. In molti casi, però, avevano luogo gare individuali. Poteva darsi che in queste ultime non si ottenesse altro che di farsi onore, ma poteva darsi che ci fossero in palio dei premi, aggiunti come incentivo al successo.
LA SCRITTURA IDEOGRAFICA DEGLI OJIBWAY
raccontata da Capo Kah-ge-ga-gah-bowh (George Copway), da Traditional History and Characteristic Sketches of the Ojibway Nation (pp. 126-136).
--Gli indiani non avevano alfabeto, perciò scrivevano per mezzo di ideogrammi, che a volte erano incisi sul rame, ma più spesso dipinti su corteccia di betulla o pelli di animali. Il più famoso di tutti gli scritti ideografici è il Walam Olum, vale a dire “riquadro dipinto” dei Delaware, che è la storia della tribù graffita su tavolette di legno. Un altro famoso manoscritto indiano è il Computo invernale di Cane Solitario, una “cronaca invernale” della tribù Sioux, riportata su pelle di bufalo dipinta. Tale cronaca va dal 1800 al 1871, e ad ogni inverno corrisponde un dipinto.
Cosa piuttosto strana, Cane Solitario e gli altri storici che lavorarono su pelli di bufalo, trascurarono avvenimenti che a noi sembrerebbero importanti. Un branco di cavalli rubati in fuga, sta a rappresentare l’anno in cui ebbe luogo una grande battaglia, oppure una caccia con esito favorevole tiene il posto di un importante trattato di pace.
Molte tribù, specialmente quelle che vivevano vicino al mare, si servivano dei wampum per gli scritti ideografici. Questi frammenti di conchiglie colorate venivano forati e uniti assieme fino a formare delle cinture, ma in modo che il disegno combinasse un messaggio. I trattati erano spesso conservati su cinture di wampum. Peter D. Clarke, un autore Wyandott, scrisse che “tutte le cinture di wampoum che rappresentavano qualche convenzione internazionale, venivano riposte negli archivi della nazione Wyandott. Ogni cintura recava qualche segno, che rappresentava la natura del patto, o trattato stipulato fra le parti, il contenuto segreto del quale era affidato alla memoria dei Capi”.---
Racconta: Capo Kah-ge-gsa-gah-bowh ( Gorge Copway):
C’è un luogo, nella terra degli indiani, dove sono depositati i documenti sacri. Questi documenti sono scritti, su una sola facciata, sopra strisce di corteccia e tavolette di legno, e vengono esaminati una volta ogni quindici anni; in tale occasione le tavolette deteriorate sono sostituite con altre nuove. Molte nazioni indiane dell’Ovest hanno luoghi nei quali depositano i documenti che si dice abbiano dato origine ai loro culti. Gli Objibway hanno tre di questi nascondigli, non lontano dalle acque del Lago Superiore. Dieci dei più saggi e venerabili membri della nazione hanno la loro dimora nelle vicinanze, e sono i custodi dei documenti stessi.
L’apertura dei nascondigli ha luogo ogni quindici anni. Allo scadere del periodo, se, morendo, qualcuno ha lasciato un posto vacante, nella primavera dello stesso anno si scelgono altri uomini che, verso il mese d’agosto, sono chiamati ad assistere all’apertura dei nascondigli. Come questi sono aperti, vengono date ai nuovi membri tutte le informazioni necessarie; poi i documenti sono messi a loro disposizione. Le tavolette vengono esaminate con estrema attenzione, e se qualcuna presenta un principio di deterioramento, è messa da parte, e se ne fabbrica una copia esatta, che viene messa al suo posto. Quella vecchia è divisa in parti uguali fra i saggi. Le si attribuisce un grandissimo valore per il fatto di essere riposta nel nascondiglio; in quanto oggetto sacro, ogni sua particella è considerata sacra: a chiunque la possegga, essa può dare la saggezza, e la si ritiene efficace, qualunque sia l’uso al quale è destinata.
Questi documenti sono scritti su pietre lisce, rame, piombo, o sulla corteccia della betulla. Si dice che il documento sia la trascrizione di ciò che il Grande Spirito comunicò agli indiani dopo il diluvio, e che da allora fu diffuso in tutto il paese per bocca dei saggi. Si tratta per bocca dei saggi. Si tratta di un codice di leggi morali che gli indiani chiamano “ il sentiero tracciato dal Grande Spirito.” Essi credono che l’obbedienza a queste leggi porterà come risultato una vita lunga e felice. I documenti contengono certi emblemi che tramandano le antiche forme di culto, e le norme per la consacrazione dei quattro sacerdoti che, soli, possono interpretarli. Vi è rappresentata la vita dell’uomo nel suo wigwam, prima che la morte fosse nel mondo, e il sentiero che poi l’uomo seguì è additato come ad esempio agli uomini di oggi.
Nella primavera del 1836, il Capo Oreille (“Coda di Alce”), parlò a mio zio di uno di questi nascondigli. Disse che egli ne era stato nominato custode circa cinque anni prima, e che i custodi si erano serviti per molto tempo, come depositi, delle località più impreviste, dove scavano una buca profonda cinque metri, piantando grossi alberi di cedro intorno alla fossa. Al centro, veniva posto un grosso tronco cavo di cedro, sigillato a un’estremità con della gomma.
L’estremità aperta era rivolta verso l’alto, e all’interno trovavano posto i documenti avvolti in piume d’oca o di cigno, che venivano cambiate ad ogni ispezione. Queste penna nere poi usate in guerra, perché si riteneva che possedessero un potere protettivo. Quando ci si accampa, un ciuffetto di queste penne viene posto vicino al luogo in cui i guerrieri eseguono le loro danze.
Queste sono alcune delle immagini che noi usiamo per scrivere. Per mezzo di tali immagini, e di altre dello stesso tipo, gli Ojibway possono scrivere i loro canti di guerra e di caccia. Un indiano che sappia tracciarle con abilità, è in grado di mandare un messaggio a un altro indiano, e con questo sistema può farsi capire perfettamente, come un viso pallido per mezzo di una lettera.
Per comunicare, esistono oltre duecento immagini di uso comune. Gli oggetti materiali vengono rappresentati mediante il disegno dell’oggetto stesso.
L’ultima frase deve essere letta come segue:
“Ascolata le parole di Sa-ge-mah”
“Il Grande Recinto di Medicina sarà pronto fra otto (?) giorni”.
“Voi che abitate nei boschi e presso i laghi e sulla riva dei corsi d’acqua, venite con le canoe o per terra, ad ascoltare il Grande Spirito.”
Nel caso specifico, il wigwam e la palizzata della medicina (Grande Recinto) rappresentano il luogo in cui vengono depositate le medicine, i documenti e gli strumenti di lavoro. Nella rappresentazione, il recinto appare pieno di uomini; i segni sopra gli uomini stanno ad indicare il numero dei giorni.
Queste rappresentazioni per mezzo di disegni vennero usate dagli Ojibway fino al giorno in cui furono introdotti presso di loro i costumi europei. Quando ciò accadde, gli Ojibway trascurarono quasi completamente di comunicare con le altre nazioni, tranne che per mezzo di qualche messaggero straordinario, e divennero molto cauti nel dare informazioni riguardanti la religione ai bianchi si burlavano di loro.
Quando incombeva un pericolo o nel corso di una guerra, per trasmettere un messaggio, si usavano collane di perline e conchiglie, e quest’uso è in voga ancor oggi (1850). Queste perline e conchiglie erano colorate, e ciascuna aveva un significato, a seconda della posizione che occupava lungo il filo. Nero, voleva dire o guerra o morte; bianco, pace e prosperità; rosso poteva rappresentare il cuore del nemico; collana metà bianca e metà rossa, o con perline dei due colori alternate, l’inizio della pace o lo scoppio di una guerra.
I numeri si segnano sulle conchiglie. Il nodo indica il punto in cui comincia il messaggio o il nome della persona che lo invia. Quando s’infilano le perline o le conchiglie, per prima cosa s’introduce la fine della frase, in modo che la prima parola del messaggio sia nelle mani della persona che lo compila. Questo modo di comunicare è il più comune.
Trecento anni fa, i Delaware corrispondevano con questo mezzo coi Shawnee del Sundusky sul Lago Erie; e questi ultimi con gli Ojibway dei laghi Superiore e Huron.
Fu questo il mezzo usato da Pontiac per i suoi appelli agli indiani del Lago Michigan, del Lago Huron, e delle Praterie dell’ Ovest, durante la guerra. Gli indiani affermano che queste perline non possono dire bugie, perché l’uomo che le porta non può, strada facendo, alterare o aggiungere nulla.
SEGNALAZIONI CON LE COPERTE
Di Capo Lutero Orso in Piedi
Da Land of the Spotted Eagle di Capo Lutero Orso in Piedi, pp. 80-81
Capo Lutero Orso in Piedi, nacque nel 1868 e trascorse la sua infanzia nelle praterie del Nebraska e del Dakota. All’età di undici anni fu mandato alla scuola indiana di Carlisle, in Pennsylvania, che frequentò per quattro anni. Dopo essere stato per breve tempo impiegato a Wanamakers, divenne insegnate nella Scuola indiana dell’Agenzia di Rosebud, nel Sud Dakota. Nel 1898, entrò a far parte del complesso di spettacoli di Buffalo Bill, il Wild West Show, e durante i suoi ultimi anni, fece l’attore cinematografico, tenne delle conferenze, e scrisse i libri che gli diedero fama.
----Gli indiani avevano molti mezzi per comunicare fra loro. I guerrieri delle praterie, in pochi minuti, per mezzo del fumo, potevano trasmettere un messaggio non troppo complicato, a cento e più miglia di distanza, perché nelle belle giornate i segnali di fumo trasmettevano le notizie quasi con la stessa velocità dei “fili parlanti” degli uomini bianchi. Le segnalazioni con lo specchio, spesso usate durante i combattimenti, servivano per trasmettere direttamente un messaggio, con un sistema di lampeggiamenti, a una distanza variante fra gli otto e i diciassette chilometri.
Quando i guerrieri di varie tribù si riunivano, parlavano a segni. Lungi dall’essere primitivo, questo mezzo di comunicazione era scorrevole e preciso quasi un discorso. Chi sapeva parlare a segni con abilità, era in grado di comunicare un sottile gioco di parole o una storia complicata, e perfino i concetti più astratti. Il linguaggio a segni era, insomma, una scrittura ideografica tradotta in gesti, con un simbolismo che spesso giungeva al livello della poesia. Il segno che serviva a indicare la parola “primavera”, consisteva nel porre la mano destra sul terreno, col dorso all’ingiù, il pollice e le altre dita rivolte verso l’alto. Poi la mano s’alzava più volte per indicare l’erba che cresce. Il segno che serviva a indicare la parola “autunno” consisteva nel rappresentare le foglie che cadono da un albero. L’idea della “falsità” era descritta facendo il segno che indicava la parola “parlare” seguito da quello che indicava “diversi modi”.----
Racconta: Capo Lutero Orso in Piedi.
Presso gli indiani delle Praterie, la coperta veniva usata comunemente come mezzo di comunicazione, soprattutto per le conversazioni a distanza, come quelle fra un villaggio e l’altro o da una collina alla pianura. Quando l’esploratore giungeva in vista del villaggio ed aveva fatto il suo segnale di richiamo, annunciava l’avvicinarsi del nemico o il prossimo arrivo di una mandria di bufali arrotolando e gettando per aria più volte, con un rapido gesto, la coperta, e acchiappandola come se fosse una palla. Questo segnale significava: “Correte.” I cacciatori e i guerrieri davano allora mano alle armi, preparandosi alla caccia o al combattimento.
Se l’esploratore sventolava la coperta su e giù adagio molte volte, e poi la stendeva per terra e vi saltava sopra, ciò significava, per coloro che stavano di sentinella, che si avvicinava un gran numero di bufali. Allora i cacciatori aspettavano che l’esploratore dicesse loro quanti erano i bufali che stavano arrivando. Se faceva, diciamo, quattrocento metri in una direzione, poi tornava verso la coperta, faceva altrettanti metri nella direzione opposta e tornava di nuovo verso la coperta, voleva dire che s’avvicinava una mandria sterminata. Ma se faceva solo pochi metri nelle due direzione, per poi tornare al punto di partenza, voleva dire che aveva avvistato una mandria non troppo numerosa. In ambedue i casi, venivano fatti i preparativi – i cacciatori riempivano di frecce le faretre, affilavano i coltelli, raccoglievano legna per il fuoco, in una parola tutti si mettevano in moto.
Si usava la coperta anche per dare il segnale di adunata. La si sventolava con un movimento che l’allontanava dal corpo e poi la riavvicinava. L’uomo usava il braccio destro, la donna il sinistro. Si usava il fumo per cominciare a distanza, e nel villaggio c’era sempre qualcuno che stava di sentinella, se si attendevano cacciatori, guerrieri, o esploratori. Questa specie di segnalazione, di solito la si cominciava ad usare a due giorni di viaggio da casa. Il fumo significava vittoria, e se una spedizione militare tornava senza fare segnali di fumo, voleva dire che non c’erano vittorie da annunciare.
Dei diversi mezzi di comunicazione, il più spettacolare era costituito dalle pantomime danzate dai campioni della tribù – cacciatori, esploratori, o guerrieri – e dalle danze delle donne, sempre eseguite in omaggio al maschio. Il Lakota era attore nato, e in certi casi dimostrava una meravigliosa abilità nelle rappresentazioni davanti alla tribù.
Attento osservatore della vita animale, le sue imitazioni del passo, del modo di procedere e di comportarsi degli animali, risultavano perfette. Mediante movimenti del corpo, espressioni del volto, passi complicati, ornamenti simbolici, e perfino contrazioni dei muscoli, le caratteristiche di quel dato animale venivano rappresentate con la massima fedeltà.
Quando si imitavano animali come la tartaruga occorrevano, naturalmente, un perfetto controllo dei muscoli e una sottile forza di suggestione.
Ogniqualvolta i campioni della tribù si riunivano per eseguire le loro danze, era un’occasione per fare gran festa e per rinsaldare i legami sociali. Con la danza, il guerriero rappresentava le sue imprese, l’esploratore le sue avventure, il cacciatore le sue peripezie, e l’uomo di medicina le sue esperienze; perché i racconti, non importa come sono fatti, non mancano mai di deliziare la gente. Inoltre, così si mantenevano vive le memorie tradizionali.
Il popolo delle Praterie si è sempre distinto dagli altri popoli per la maniera espressiva con cui muoveva le mani nel cosiddetto “linguaggio a segni” vale a dire quei gesti usati per comunicare, che hanno tanto spesso incuriosito gli europei
EDUCAZIONE DEI BAMBINI
di Ohiyesa,
da Indian Boyhood, pp.49 e sgg.
Racconta Ohiyesa, Sioux:
I costumi descritti sono quelli dei Sioux Santee, i quali vivevano nella Columbia Britannica negli anni attorno al 1860.
Si suppone di solito che, presso gli aborigeni di questa terra, non esistesse un sistema di educazione dei bambini. Nulla di più lontano dalla verità. Tutte le usanze di questi popoli primitivi erano ritenute di origine divina, e quelle connesse all’educazione dei figli erano scrupolosamente seguite e tramandate di generazione in generazione.
I genitori che attendevano un figlio, univano i loro sforzi per cercare di trasmettere al nascituro quanto di meglio avevano ereditato dai loro antenati; così, una donna indiana, incinta, spesso sceglieva, come modello per il bambino, i maggiori personaggi della famiglia e della tribù, e non passava giorno senza che ricordasse l’eroe. Attingeva alla tradizione di imprese e gesta audaci, e quando era sola le riviveva fra sé e, perché l’impressione riuscisse più chiara, evitava la compagnia della gente. Si isolava, passeggiava tutta sola, non certo con la mente distratta, ma facendo la massima attenzione alla magnificenza dello scenario naturale.
Gli indiani credevano anche che certe specie di animali potessero esercitare la loro influenza sul nascituro, conferendogli qualità particolari, mentre altri erano in grado di produrre un’impressione così spiacevole, che il bimbo rischiava di diventare un mostro. Se il piccolo nasceva con il labbro leporino se ne dava la colpa di solito al coniglio, il quale, si diceva, aveva gettato il malocchio sulla madre e impresso le proprie fattezze al piccolo. Alla donna incinta si rifiutava perfino la carne di certi animali, perché si supponeva che influisse sul carattere e sui lineamenti del bimbo.
Appena il futuro guerriero faceva il suo ingresso nella vita, veniva accolto da ninne-nanne che parlavano di meravigliose imprese di caccia e di guerra. Le idee che occupavano con tanta intensità la mente di sua madre prima che nascesse, venivano ora tradotte in parole da tutte le persone che stavano attorno al bambino, anche se questi era ancora del tutto insensibile a tali appelli al suo onore e alla sua ambizione. Ad esempio, lo chiamavano futuro difensore del suo popolo, e affermavano che le loro vite dipendevano dal suo coraggio e dalla sua bravura. Se si trattava di una femminuccia, fin dai primi giorni le si rivolgevano come alla futura madre di una nobile schiatta. Nei canti di caccia, entravano i principali animali; questi si presentavano al bimbo offrendo i loro corpi per il sostentamento della tribù. Gli animali erano considerati suoi amici e se ne parlava quasi come di tribù di altri uomini, o come di cugini, nonni e nonne. Anche le canzoni d’amore, trasformate in ninne-nanne, erano ugualmente fantasiose, e in esse, mentre gli innamorati restavano uomini, le belle fanciulle si trasformavano in visoni e daine.
Giovanissimo, il ragazzo indiano si assumeva il compito di conservare e tramandare le leggende degli antenati e della razza. Quasi ogni sera, uno dei genitori o dei nonni narrava una fiaba o un episodio reale avvenuto nel passato, e il ragazzo ascoltava a bocca a aperta, gli occhi lucidi. La sera seguente, di solito gli si chiedeva di ripetere il racconto. Se non era un buon allievo, aveva un compito piuttosto duro, ma generalmente il ragazzo indiano è un buon ascoltatore e ha un’ottima memoria, e quelle storie venivano mandate a mente con facilità. La famiglia diventava il suo uditorio, dal quale, volta a volta, era criticato o applaudito.
Questo tipo di insegnamento, dunque, educa fin dalla nascita la mente del ragazzo e sprona la sua ambizione. Il concetto della propria carriera futura diviene una forza viva e irresistibile. Qualsiasi cosa ci sia da imparare, il ragazzo deve impararla; qualsiasi qualità sia necessaria a un uomo per essere davvero grande, il ragazzo deve acquistarla, a costo di qualunque pericolo o fatica. Questi erano i principi che s’impartivano al giovane indiano per farlo crescere forte e ricco di fantasia. Già nei primi anni di vita, egli comprendeva perfettamente che doveva abituarsi alla solitudine e a non temere né odiare le impressioni che la solitudine di solito genera.
Non si tralasciavano certo le norme di cortesia e i principi morali, e fu così che m’insegnarono a rispettare gli adulti e soprattutto i vecchi. Non m’era permesso di intervenire nelle discussioni fra persone anziane, e neppure di parlare in loro presenza, a meno che non fossi stato espressamente invitato a farlo. L’etichetta indiana era rigidissima,, e una delle norme era quella che imponeva di non rivolgersi mai agli interlocutori chiamandoli per nome: di solito, infatti, colui che voleva mostrare il proprio rispetto usava il termine che indicava il grado di parentela oppure un titolo di cortesia. Ci veniva insegnata la generosità verso i poveri e la venerazione per il “Grande Mistero”. La religione stava alla base di tutta l’educazione indiana. Ancor oggi mi ricordo di certi rimproveri o ammonimenti, detti in tono gentile, che la mia buona nonna aveva l’abitudine a rivolgermi: “ Sii forte , sii paziente!” era solita dirmi. Mi parlava di un giovane capo noto per i suoi scatti d’ira incontrollata: una volta, durante uno dei suoi impeti di rabbia, tentò di uccidere una donna, e per questo motivo fu messo a morte dal suo stesso gruppo e, in segno di disonore, non gli fu data sepoltura: il suo corpo fu semplicemente coperto di erba verde. Quando perdevo il controllo di me stesso, la nonna diceva: “Controllati, o finirai come quel giovanotto di cui ti ho parlato, messo a giacere sotto una coltre verde.”
Un tempo, a nessun uomo era permesso l’uso del tabacco, in qualunque forma, finché non fosse diventato un guerriero famoso e avesse compiuto qualche impresa. Se un giovanotto cercava moglie prima d’aver compiuto ventidue o ventitrè anni, e d’essersi dimostrato un uomo coraggioso, ci si burlava di lui e lo si considerava un indiano male educato. Doveva anche essere un abile cacciatore, perché un uomo non poteva essere un buon marito se non portava a casa selvaggina in abbondanza.
Precetti, questi, che appartenevano al genere di educazione necessaria per chi viveva a contatto con la natura.
LA NARRAZIONE DELLE LEGGENDE
di Capo Elias Johnson
da Legends, Traditions and Laws of the Iroquois or Six Nations p. 220.
Capo Elias Johnson , un Tuscarora istruito, pubblicò il suo leggendario resoconto sugli Irochesi nel 1881.
Racconta: Capo Elias Johnson (Tuscarora).
I costumi descritti erano quelli in uso fra gli Irochesi di New York nel XIX secolo e prima.
Nelle lunghe sere d’inverno, i cacciatori indiani si riunivano attorno al fuoco da campo per ascoltare racconti storici, leggende di guerra e di caccia, e fiabe, che erano state tramandate dai padri e dai nonni, per secoli e secoli e secoli, senza alcun cambiamento o quasi, eccitando l’entusiasmo del guerriero e ispirando al bambino il desiderio di realizzare un giorno quei sogni e tramandare il suo nome ai posteri, come aveva fatto l’autore di quelle gesta.
I cacciatori hanno una gran paura superstiziosa di narrare favole in tempo d’estate; non parleranno di serpenti finché la neve non sia caduta, per paura che s’infilino nei loro letti, e neppure del genio del male, per paura che in un modo o nell’altro possa vendicarsi.
Per uno straniero, è difficilissimo afferrare la morale delle loro storie, benché si sia detto , da parte di coloro che li conoscono perfettamente, che per essi un racconto è sempre l’illustrazione di un principio morale.
Agli stranieri, essi offrono piena ospitalità, ma non aprono il loro cuore. Se glielo chiedete, vi racconteranno una storia ma non sarà una storia come quelle che raccontano quando sono fra loro. Avranno paura che voi vi burliate di loro ed elimineranno umorismo e commozione; hanno imparato così bene a diffidare dei visi pallidi, che anche quando vengono a sapere che il bianco presente è un amico, ancor oggi si rifiuteranno di aprirli le porte segrete del loro cuore.
E quando avrete imparato tutto ciò che si può dire a parole, ci saranno ancora centinaia di immagini, sottintesi e accenni, abituali all’indiano, ma che non faranno vibrare alcuna corda nel vostro cuore. Le infinite voci della natura per voi sono mute; ma per loro sono colme di vita e di suggestione.