geronimo la vera intervista di fort sill
L'ORIGINE DEGLI INDIANI APACHE
In principio il mondo era coperto di tenebre. Non c'era il sole, non c'era la luce del giorno. La notte perpetua non aveva né luna né stelle. C'era però ogni sorta di bestie e di uccelli.
Tra le bestie c'erano molti mostri orrendi e senza nome, oltre a draghi, leoni, tigri, lupi, volpi, castori, conigli, scoiattoli, ratti, topi, e tutte le qualità di esseri striscianti come le lucertole e i serpenti. Il genere umano non poteva prosperare in queste condizioni, perché le bestie e i serpenti distruggevano tutta la prole dell'uomo.
Ogni creatura aveva il dono della parola e era fornita di ragione.
C'erano due tribù di creature: gli uccelli, ossia la tribù piumata, e le bestie. I primi erano organizzati sotto il loro capo, l'aquila. Queste tribù tenevano sovente consigli, e gli uccelli desideravano che si introducesse la luce.
Ripetute volte le bestie rifiutarono di accettarla. Finalmente gli uccelli fecero guerra alle bestie.
Le bestie erano armate di bastoni, ma l'aquila aveva insegnato alla sua tribù l'uso dell'arco e delle frecce. I serpenti erano tanto astuti che non poterono essere uccisi tutti. Uno si rifugiò su una rupe scoscesa in una montagna dell'Arizona e il suo occhio (convertito in pietra brillante) può ancor oggi essere visto su quella roccia. Ciascuno degli orsi, quando era ucciso, si
trasformava in molti altri orsi, cosicché, quanti più orsi la tribù dei pennuti uccideva, tanti più ce n'erano. Neppure H drago poteva essere ucciso, poiché era ricoperto di quattro strati di squame cornee che le frecce non riuscivano a penetrare. Uno dei mostri più orrendi e più abominevoli (senza nome) era a prova di frecce:
allora l'aquila si librò alta nell'aria con una pietra bianca e rotonda e la lasciò cadere sul capo del mostro, uccidendolo all'istante. Il servigio reso da questa pietra fu tanto buono, che la pietra fu dichiarata sacra. l Molti giorni durarono i combattimenti, poi finalmente agli uccelli toccò la vittoria.
Finita questa guerra, quantunque rimanessero alcune bestie malvagie, gli uccelli poterono prevalere nei consigli, e la luce fu introdotta. Il genere umano poté vivere e prosperare. L'aquila aveva condotto questa favorevole battaglia:
per conseguenza, le sue penne furono portate dall'uomo come simbolo di saggezza, giustizia e potenza.
Fra i pochi esseri umani ancora vivi c'era una donna cui erano concessi molti figli, i quali però venivano sempre distrutti dalle bestie. Se con tutti i suoi sforzi la madre riusciva a evitare le altre belve, arrivava il drago stesso, che era astutissimo e assai malvagio, e le divorava i bambini.
Dopo molti anni le nacque un figlio, generato dal temporale. Per lui essa scavò una profonda caverna, sbarrò l'ingresso di questa caverna e sul luogo accese un fuoco da campo. Questo fuoco teneva caldo il bambino e ne celava il nascondiglio. La madre tutti i giorni disfaceva il
fuoco e scendeva nella caverna dov'era il giaciglio del bimbo, per allattarlo; poi usciva e riaccendeva il fuoco del bivacco.
Ripetutamente il drago venne a interrogarla, ma la madre soleva rispondergli: « Non ho più figli; tu me li hai divorati tutti ».
Quando il bambino fu più grande, non rimaneva continuamente nella caverna, poiché desiderava poter ogni tanto correre e giocare. Una volta il drago vide le sue orme. Questo rese perplesso il vecchio drago e lo fece arrabbiare, perché non riusciva a scoprire il nascondiglio del ragazzo; disse allora che avrebbe ammazzato la madre se non gli avesse rivelato il luogo in cui nascondeva il figlio. La povera madre ne fu turbatissima; non poteva rinunciare al suo bambino, ma, conoscendo la potenza e l'astuzia del drago, viveva costantemente nel terrore.
Poco tempo dopo, il ragazzo annunciò che desiderava andare a caccia. La madre non avrebbe voluto dargli il permesso e gli parlò del drago, dei lupi, dei serpenti. Ma il ragazzo disse: « Domani vado ».
Pregato dal ragazzo, suo zio (che era l'unico uomo vivente in quei tempi) gli fabbricò un piccolo arco e qualche freccia, e i due andarono il giorno seguente a caccia. Inseguirono il cervo su per i monti, e infine il ragazzo uccise un maschio. Lo zio gli insegnò a scuoiare il cervo e a cuocerne la carne. Arrostirono sul fuoco la parte posteriore della bestia, metà per il ragazzo e metà per lo zio. Quando la carne fu cotta, la misero a raffreddare sui cespugli. Proprio in quel momento apparve l'immensa forma del drago. Il bambino non si spaventò, ma lo zio fu talmente paralizzato dal terrore, che non parlò e non si mosse.
Il drago prese la porzione di carne del ragazzo, e con questa si allontanò un poco. Mise la carne su un altro cespuglio e vi si accovacciò vicino.
Poi disse: « Questo è il bambino che ho tanto cercato. Ragazzo mio, sei grasso e gustoso; quando avrò mangiato questa carne di cervo, ti divorerò ». Il ragazzo rispose: « No, non mi mangerai, e non mangerai quella carne.» Così mosse qualche passo verso il punto in cui stava il drago, e riportò la carne vicino al proprio sedile. Il drago disse: « Ammiro il tuo coraggio, ma sei sciocco: che cosa pensi di poter fare?» rispose il ragazzo, .« posso fare quanto basta per proteggermi, come puoi vedere. » Allora il drago prese di nuovo la carne e il ragazzo gliela ritolse. In tutto il drago prese la carne quattro volte; il ragazzo, dopo aver riportato al suo posto la carne la quarta volta, gli disse: « Drago, vuoi combattere con me? » Il drago rispose: « Sì, nel modo che tu preferisci ». Il ragazzo disse: « Mi metterò alla distanza di cento passi da te; potrai tirare quattro volte contro di me con il tuo arco e le tue frecce, purché poi tu prenda il mio posto e mi conceda quattro colpi ». « Bene », disse il drago, « stai dritto. » Allora il drago afferrò l'arco, che era fatto di un grosso pino. Scelse quattro frecce dalla faretra; erano fabbricate con giovani alberelli di pino, e ogni freccia era lunga sei metri. Prese lentamente la mira, ma proprio mentre la freccia scoccava dall'arco il ragazzo emise uno strano suono e saltò in aria. Immediatamente la freccia si spezzettò in mille frammenti; e il ragazzo fu visto in piedi in cima a uno scintillante arcobaleno proprio sul punto contro cui il drago aveva diretto il tiro. Di colpo l'arcobaleno scomparve e il ragazzo fu di nuovo in piedi nello stesso posto. Questo si ripeté quattro volte, poi il ragazzo disse: « Drago, stai qui, adesso tocca a me tirare ». Il drago rispose: « Benissimo; le tue piccole frecce non possono trapassare la mia prima corazza di corno, e io ne ho altre tre... tendi pure il tuo arco ». Il ragazzo scagliò una freccia, colpì il drago proprio sopra il cuore, e uno strato delle grosse squame cornee cadde al suolo. Il secondo tiro infranse un altro strato, il ,terzo un altro ancora, e il cuore del drago rimase esposto.
Allora il drago tremò, ma non poté muoversi.
Prima di lanciare la quarta freccia, il ragazzo disse: « Zio, tu sei irrigidito dalla ,paura e non ti sei mosso; vieni qui, altrimenti il drago ti cadrà addosso ». Lo zio corse verso di lui. Allora il ragazzo scoccò la quarta freccia con mira sicura e trapassò il cuore del drago. Con un tremendo urlo il drago rotolò giù lungo il fianco della montagna... giù per quattro dirupi fino a un canyon sottostante.
Immediatamente nubi temporalesche strisciarono sulle montagne, i fulmini diedero bagliori, il tuono rimbombò e la pioggia cadde a rovescio.
Quando il nubifragio cessò, laggiù in fondo al canyon si poterono scorgere i frammenti dell' enorme corpo del drago sparpagliati tra le rocce.
Le ossa di quel drago si possono ancora vedere in quel posto.
Il nome di questo ragazzo era Apache. Usen gli insegnò a preparare le erbe medicinali, a cacciare, a combattere. Egli fu il primo capo degli Indiani e portò le penne dell'aquila come simbolo di giustizia, di saggezza, di potenza. A lui ed alla sua gente, quando fu creata, Usen diede dimora nelle terre d'occidente.
SUDDIVISIONI DELLA TRIBÙ DEGLI APACHE
Gli indiani apache sono divisi in sei sottotribù. lo appartengo a una di queste, i be-don-ko-he. La nostra tribù abitava quella zona di terreno montuoso che si trova a ovest del confine orientale dell' Arizona, e a sud delle sorgenti del fiume Gila.
Più verso oriente vivevano gli apache chi-henne (ojo caliente, Hot Springs). La nostra tribù non ebbe mai scontri con loro. Victoria, il loro capo, fu sempre mio amico. Venne in aiuto della nostra tribù tutte le volte che glielo chiedemmo.
Perse la vita difendendo i diritti del suo popolo. Era un uomo buono e un bravo guerriero.
Suo figlio Charlie ora vive qui con noi in questa riserva.
A nord rispetto a noi vivevano gli apache White Mountain. Questi non sempre andavano d'accordo con la nostra tribù, però raramente combattemmo contro" di loro qualche guerra.
Conobbi personalmente il loro capo, Hash-kaai-la, e lo reputai un buon guerriero. Il loro territorio confinava con quello degli indiani navaho, che non sono dello stesso sangue degli apache. Noi tenevamo consigli con tutte le tribù apache, ma mai con gli indiani navaho. Però commerciavamo con loro e talvolta li visitavamo.
A occidente del nostro paese si schieravano gli apache chi-e-a-hen. Nella mia epoca ebbero due capi, Co-si-to e Co-da-hoo-yah. Erano in buoni rapporti con la nostra tribù, ma non erano grandi amici.
Più a sud di noi vivevano gli apache cho-konen (chiricahua) il cui capo nei vecchi tempi era Co-chise, e in seguito suo figlio Naiche. Questa tribù fu sempre in ottimi rapporti con noi. Eravamo sovente insieme, negli accampamenti e sulle piste. Naiche, che fu mio compagno in guerra, è ora mio compagno di schiavitù.
A sud e a ovest vivevano gli apache ned-ni. Il loro capo era Whoa, chiamato dai messicani capitano Whoa. Erano nostri amici sicuri. Il territorio di questa tribù si estende parte nel Vecchio Messico, parte nell' Arizona. Whoa e io sovente ci accampavamo e combattevamo a fianco a fianco come fratelli. I miei nemici erano suoi nemici, i miei amici suoi amici. Ora è morto, ma suo figlio Asa mi serve da interprete per questa storia. Le quattro tribù (bedonkohe, chokonen, chihenne, nedni), che erano legate da un'amicizia saldissima nei giorni della libertà, sono ancora strette insieme mentre calano di numero. Soltanto la distruzione di tutta la nostra gente potrebbe sciogliere i nostri vincoli d'amicizia.
Stiamo scomparendo dalla terra, eppure non posso pensare che siamo inutili, perché in questo caso Usen non ci avrebbe creati. Egli creò tutte le tribù umane: certamente ebbe uno scopo giusto quando creò ciascuna tribù.
Per ogni tribù di uomini che Usen ha creato egli fece anche una dimora. Nella terra creata per ciascuna delle tribù egli pose tutto ciò che meglio conveniva al suo benessere.
Quando Usen creò gli apache, creò anche le loro dimore nell' occidente. Diede loro quei cereali, quei frutti, quella selvaggina che costituivano il loro cibo necessario. Perché riacquistassero la salute quando la malattia li assaliva, egli fece sì che crescessero molte erbe differenti. Insegnò loro dove trovarle, e come preparare con queste le medicine. Egli diede agli apache un clima piacevole, e mise loro a portata di mano tutto quanto occorreva per vestirsi e per ripararsi.
Così fu all'inizio: gli apache e i loro paesi creati gli uni per gli altri dallo stesso Usen. Quando gli apache sono strappati da questi loro paesi, si ammalano e muoiono. Quanto tempo passerà ancora, prima che si possa dire: non ci sono più apache?
I PRIMI ANNI
Sono nato nel giugno del 1829 nell'Arizona, nel canyon No-doyohn.
Fui allevato in quel territorio che si stende intorno alle sorgenti del fiume Gila. Questo spazio era la nostra patria; fra queste montagne erano nascosti i nostri wigwam; le vallate sparse racchiudevano i nostri campi; le praterie sconfinate, che si stendevano all'infinito in ogni direzione, erano i nostri pascoli; le caverne rocciose erano le nostre sepolture.
Fui il quarto di una famiglia di otto figli:
quattro ragazzi e quattro ragazze. l Di quella famiglia, siamo ancora vivi soltanto io, mio fratello Porico (Cavallo Bianco) e mia sorella Nahda-ste. Siamo tenuti prigionieri di guerra in questa riserva militare (Fort Sill).
Quand' ero piccolo mi rotolavo sullo sporco pavimento del tepee di mio padre, pendevo dalla schiena di mia madre oppure ero sospeso al ramo di un albero con il mio tsoch (il nome apache della culla). Ero scaldato dal sole, cullato dal vento, riparato dagli alberi come gli altri piccoli indiani.
Nell'infanzia mia madre m'insegnò le leggende del nostro popolo, mi parlò del sole e del cielo, della luna e delle stelle, delle nubi e dei temporali. M'insegnò anche a inginocchiarmi per pregare Usen chiedendogli forza, salute, saggezza e protezione. Non pregavamo mai contro nessuno: se avevamo qualcosa contro un individuo, prendevamo noi stessi la nostra vendetta. Ci hanno insegnato che U sen non si occupa dei meschini litigi degli uomini.
Mio padre mi aveva parlato tante volte delle coraggiose gesta dei nostri guerrieri, dei piaceri della caccia, e delle glorie del sentiero di guerra.
Giocavo intorno alla casa di mio padre con i fratelli e le sorelle. Qualche volta giocavamo a nascondino tra le rocce e i pini, qualche altra gironzolavamo all'ombra dei pioppi oppure cercavamo il shudock (una specie di ciliegia selvatica) mentre i nostri genitori lavoravano nei campi. Talvolta giocavamo a fare la guerra. Ci addestravamo a strisciare di soppiatto verso qualche oggetto che rappresentava per noi il nemico, e con le nostre imitazioni infantili eseguivamo azioni militari. Talvolta ci nascondevamo alla vista di nostra madre per vedere se riusciva a trovarci, e mentre eravamo rimpiattati ci addormentavamo e rimanevamo per molte ore nel nostro nascondiglio.
Quando fummo grandi abbastanza da poter essere d'aiuto andammo nei campi con i genitori, non più a giocare, ma a faticare. Quando bisognava seminare, rompevamo la terra con zappe di legno. Seminavamo il granturco in file dritte, i fagioli tra il granturco, e i meloni e le zucche in ordine irregolare in tutto il campo.
Coltivavamo questi raccolti nelle quantità che ci occorrevano. Il nostro campo si estendeva su circa due acri di terra. I campi non erano mai cintati. Era cosa abituale che molte famiglie coltivassero il suolo nella medesima valle per dividersi la fatica di proteggere il raccolto durante la crescita e non lasciarlo distruggere dai cavalli della tribù oppure dai cervi e da altri animali selvatici.
Raccoglievamo i meloni a mano a mano che li mangiavamo. In autunno raccoglievamo e riponevamo in sacchi o ceste le zucche e i fagioli;
legavamo insieme per il cartoccio le pannocchie di mais, poi portavamo il raccolto a dorso di cavallo fino alle nostre case. Qui il granturco veniva sgranato, e tutta la messe riposta in grotte o altri luoghi appartati per usarla durante l'inverno.
Non davamo mai ai nostri cavalli il granturco, ma se li mantenevamo anche d'inverno li nutrivamo con foraggio secco. Non avevamo bovini o altri animali domestici, eccetto i cani e i cavalli.
Non coltivavamo il tabacco, ma lo trovavamo allo stato selvatico. Lo tagliavamo in autunno per conservarlo, ma se le provviste finivano ci accontentavamo delle foglie lasciate sugli steli rimasti dritti. Tutti gli indiani fumavano, uomini e donne. Non si lasciavano fumare i ragazzi finché non avevano cacciato da soli e non avevano ucciso qualche grossa preda, come lupi e orsi.
Alle donne non sposate non si proibiva di fumare, ma se lo facevano erano considerate immodeste. Quasi tutte le matrone fumavano.
Oltre a macinare il granturco (a mano, con mortai e pestelli di pietra) per fare il pane, talvolta lo schiacciavamo e ammollavamo, e quando era fermentato ne spremevamo il succo e facevanlo il « tiswin », una bevanda intossicante, che gli indiani apprezzano moltissimo. Questo lavoro toccava alle donne e ai bambini. Quando bisognava raccogliere bacche o noci i bambinetti e le squaw si riunivano in gruppi per andarle a cercare, e qualche volta rimanevano via tutto il giorno. Quando si recavano in luoghi molto distanti dall'accampamento prendevano i pony per caricarli di ceste.
lo mi univo sovente a questi gruppi. Una volta, durante una di queste spedizioni, una donna di nome Cho-ko-le si smarrì e si allontanò dalla compagnia. Mentre, a cavallo del suo pony e seguita dal suo cagnolino, stava attraversando un folto d'alberi alla ricerca delle amiche e procedeva lenta fra il fitto sotto bosco e i tronchi dei pini, un orso grigio le sbarrò tutt'a un tratto il sentiero e attaccò il cavallino. La donna saltò a terra e il pony fuggì, ma l'orso l'attaccò.
Essa si difese come meglio poté con un coltello.
Il cagnolino, azzannando le zampe della belva e attirando su di sé l'attenzione, aiutò la donna a tenersi fuori della portata degli artigli dell' orso.
Infine la belva la colpì sulla testa e le strappò quasi tutto lo scalpo. La donna cadde, ma non perse la conoscenza, e da terra gli menò quattro buone coltellate, tanto da costringerlo a andarsene. Quando l'orso si fu allontanato, la donna si rimise a posto lo scalpo strappato e lo fasciò il meglio possibile, ma in quel momento si sentì malissimo e dovette coricarsi per terra. Quella notte il suo cavalli no ritornò all'accampamento con un carico di noci e bacche, ma senza padrona. Gli indiani la cercarono ma riuscirono a trovarla soltanto dopo due giorni. La portarono a casa, e dopo le cure degli uomini di medicina tutte le ferite guarirono.
Gli indiani sapevano quali erbe usare come medicina, in che modo prepararle, in che modo somministrarle. Lo avevano imparato da Usen in principio, e ogni generazione che si succedeva aveva uomini che erano esperti nell'arte di rIsanare.
Mentre si raccoglievano e si preparavano le erbe, e mentre si somministrava il rimedio, si aveva fede nella preghiera tanto quanto nell' efficacia della medicina.
Di solito circa otto persone lavoravano insieme per fare la medicina, e ogni stadio del procedimento era accompagnato da formule di preghiera e da incantesimi. Quattro si occupavano delle formule magiche e quattro della preparazione delle erbe.
Alcuni degli indiani erano esperti nell' estrarre pallottole, punte di frecce, e altri proiettili che avevano prodotto ferite ai guerrieri. lo stesso l'ho fatto molte volte, usando un comune pugnale o un coltello da macellaio. I bambini piccoli erano pochissimo vestiti nell'inverno e non avevano nulla addosso d'estate. Le donne di solito portavano una gonna primitiva, che consisteva in un pezzo di cotonina legato alla cintola, che arrivava fino alle ginocchia. Gli uomini portavano soltanto un perizoma e mocassini. D'inverno aggiungevano camicie e gambali.
Sovente, quando la tribù era accampata, un certo numero di ragazzi e ragazze si mettevano d'accordo e si allontanavano furtivamente per
radunarsi in un luogo distante molte miglia, dove potevano giocare tutto il giorno liberi da ogni impegno.
Non erano mai puniti per queste monellerie;
ma se i loro nascondigli erano scoperti, i ragazzi venivano canzonati.
DIVERTIMENTI, USI E COSTUMI DELLA TRIBU
Per festeggiare ogni evento importante davamo un banchetto e una danza. A volte invitavamo soltanto la nostra gente, a volte le. tribù vicine.
Questi festeggiamenti duravano di solito circa quattro giorni. Di giorno banchettavamo, di notte danzavamo sotto la direzione di qualche capo.
Il ritmo della danza era segnato dal canto diretto dai guerrieri e accompagnato dai colpi di esadadedne (pene tesa su un cerchio). Non cantavamo parole, davamo soltanto il tono. Finiti il banchetto e la danza, partecipavamo a corse a cavallo, corse a piedi, lotte, salti, e a ogni sorta di giochi (d'azzardo).
Tra questi giochi il più importante era il gioco tribale di Kah (piede). Si gioca così: si dispongono quattro mocassini lontani l'uno dall'altro più di un metro in buche scavate in fila nella terra da un lato dell'accampamento, e si forma una consimile fila parallela sul lato opposto. Quando è notte, si accende un fuoco tra queste due file di mocassini e i giocatori si allineano dalle due parti in due gruppi di qualsiasi numero da uno in su. I punti si segnano con un fascio di bastoncini, da cui ogni squadra prende un bastoncino tutte le volte che fa un punto. Uno dei due gruppi prende l'osso, l drizza delle coperte tra i quattro mocassini e il fuoco in modo che la parte avversaria non possa osservare i suoi movimenti, e poi incomincia a cantare le leggende della creazione. La parte che ha l'osso rappresenta la tribù dei pennuti, la parte opposta rappresenta le bestie. I giocatori che raffigurano gli uccelli sono gli unici che cantano, e intanto nascondono l'osso in uno dei mocassini, poi abbassano le coperte. Continuano a cantare, ma appena le coperte sono calate il giocatore scelto dalla squadra avversaria, armato di una mazza da guerra, va dalla loro parte di là dal fuoco e con il bastone colpisce il mocassino in cui pensa che sia nascosto l'osso. Se mena la botta sul mocassino giusto, la sua squadra ottiene l'osso, e a sua volta rappresenta gli uccelli, mentre gli avversari devono stare fermi e cercare d'indovinare. Ci sono soltanto quattro possibilità di gioco: tre perdenti e una vincente. Quando si sono tolti tutti i bastoncini dal mucchio, la squadra che ha il maggior numero di bastoncini ha vinto.
Non facciamo quasi mai partite di questo genere se non per giocare d'azzardo; proprio per questo motivo, però, è il gioco più popolare che la tribù conosca. Di solito la partita dura quattro o cinque ore. Non giochiamo mai durante il giorno.
Quando tutti i giochi sono finiti, gli ospiti dicono: « Siamo soddisfatti», e la riunione si scioglie. lo ero sempre felice quando si annunciavano danze e banchetti. E altrettanto felici erano gli altri giovani.
La nostra vita aveva anche un aspetto religioso. Non possedevamo chiese né organizzazioni religiose né giorni festivi né il giorno del riposo, eppure avevamo una forma di culto. Talvolta
l'intera tribù si raccoglieva per cantare e pregare; talvolta ci radunavamo in minor numero, anche solo in due o tre. I canti contenevano qualche parola, ma non erano formali. Il cantore di quando in quando introduceva parole a suo piacimento invece del solito coro senza voci.
Talvolta pregavamo in silenzio; talvolta ciascuno pregava a alta voce; talvolta una persona anziana pregava per tutti noi. In altre occasioni un individuo si alzava e ci parlava dei nostri doveri l'uno verso l'altro e verso Usen. I nostri servizi religiosi erano brevi.
Quando c'erano troppe malattie o pestilenze i nostri capi ci radunavano e ci interrogavano per accertare quali mali avessimo commesso, e in che modo fosse possibile soddisfare Usen talora appariva necessario un sacrificio, talaltra si puniva colui che aveva commesso l'offesa.
L'apache che aveva fatto soffrire i suoi anziani genitori per mancanza di cibo o di un riparo, oppure aveva trascurato o offeso gli ammalati, oppure aveva profanato la nostra religione o era stato infedele, poteva essere bandito dalla tribù.
Gli apache non avevano prigioni come le hanno gli uomini bianchi. Invece di mandare in carcere i loro criminali, li scacciavano lontano dalla tribù. Questi membri della tribù, sleali, crudeli, pigri o codardi, venivano respinti in modo che non si potessero unire a nessun'altra tribù.
E non potevano neppure essere protetti dalle nostre leggi tribali tramandate oralmente. Molto spesso questi indiani proscritti si riunivano in bande e commettevano saccheggi di cui era accusata la tribù regolare. A ogni modo, la sorte dei fuorilegge indiani era dura e le loro bande non diventavano mai molto numerose; per di più, queste ba;nde provocavano frequentemente l'ira della tribù e si tiravano addosso la propria distruzione.
Quando ebbi otto o dieci anni all'incirca, incominciai a seguire la caccia, e questo per me non fu mai un lavoro.
Fuori nelle praterie che si stendevano fino alle nostre dimore montane erravano mandrie di cervi, antilopi, alci, bufali, che potevamo uccidere quando ne avevamo bisogno.
Di solito andavamo a caccia dei bufali a cavallo, e li ammazzavamo co; frecce e lance. Usavamo le loro pelli per costruirci i tepee e per i nostri giacigli; ci cibavamo della loro carne.
Per andare a caccia del cervo occorreva più abilità che per gli altri animali. Non cercavamo.
mai di avvicinare un cervo eccetto che contro vento. Molte volte ci occorrevano ore e ore per accostarci di soppiatto ai cervi che pascolavano.
Se questi erano in terreno aperto, percorrevamo lunghi tratti strisciando per terra, tenendo davanti a noi un cespuglio o un ciuffo d'erba, perché non si accorgessero del nostro avvicinamento. Sovente riuscivamo a uccidere parecchie bestie della stessa mandria prima che le altre scappassero. Ne facevamo seccare la carne e la riponevamo in vasi, conservandola in questa condizione per molti mesi. Ammollavamo la pelle del cervo in acqua e cenere, toglievamo i peli, e continuavamo il processo di conciatura finché la pelle diventava soffice e flessibile. Forse nessun altro animale ci era più prezioso del cervo.
Nelle foreste e lungo i corsi d'acqua vivevano molti tacchini selvatici. Noi li spingevamo verso la pianura, poi cavalcavamo lentamente verso di loro finché erano sfiniti. Quando i tacchini incominciavano a lasciarsi cadere e a nascondersi, ci buttavamo loro addosso a cavallo e, spenzolando in fuori dalla groppa, li afferravamo con le mani. Se un tacchino si metteva a fuggire gli cavalcavamo dietro veloci e lo ammazzavamo con un bastone corto, cioè con una mazza da caccia.
In questa maniera potevamo di solito ottenere tanti tacchini selvatici quanti ne potevamo portare a casa sul nostro cavallo.
Nella nostra zona c'erano molti conigli, e anche di questi andavamo a caccia a cavallo. l nostri cavalli erano addestrati a seguire i conigli a tutta velocità; quando eravamo abbastanza vicini, ci mettevamo a penzoloni da un fianco del cavallo e colpivamo i conigli con la mazza da caccia. Se c'era un coniglio troppo lontano, gli lanciavamo contro il bastone e lo uccidevamo in questo modo. Questo era un gran divertimento per noi ragazzi, ma quando diventavamo guerrieri andavamo raramente a caccia di animali piccoli.
Nei corsi d'acqua abbondavano i pesci, ma siccome non li mangiavamo non cercavamo di prenderli o di ucciderli. I ragazzini talvolta lanciavano pietre o si allenavano a scagliare frecce con i loro archi contro i pesci. Usen ha stabilito che i serpenti, le rane e i pesci non siano mangiati.
lo non li ho mai mangiati. Sulle montagne c'erano molte aquile. Le cacciavamo per le loro penne. Occorre molta destrezza per avvicinarsi di soppiatto a un'aquila, che non soltanto ha la vista acuta, ma è scaltra e non si posa mai in punti da cui non possa spaziare con gli occhi su tutto il territorio circostante.
Ho ucciso molti orsi con la lancia, ma non sono mai stato ferito lottando con una di queste belve. Ho abbattuto parecchi puma con le frecce, e uno con la lancia. Sia gli orsi sia i puma sono buoni come cibo e preziosi per la pelliccia.
Quando li uccidevamo, li trasportavamo a casa sui nostri cavalli. Sovente ci fabbricavamo faretre per le frecce con la pelle del puma: erano molto belle e resistentissime.
Finché io fui in minore età non avevamo mai visto né un missionario né un prete. Non avevamo mai visto un uomo bianco. Così vivevano tranquilli gli apache bedonkohe.
LA FAMIGLIA
Il mio nonno, Maco, era stato nostro capo. lo non lo vidi mai, ma mio padre mi parlò sovente della grande statura, della forza e della sagacia di questo vecchio guerriero. Avevano combattuto le loro guerre più importanti con i messicani.
Avevano avuto combattimenti anche con altre tribù indiane; con le città messicane, però, erano raramente rimasti in pace per un lungo periodo di tempo.
Maco morì quando mio padre non era che un giovane guerriero, e Mangus-Colorado divenne capo degli apache bedonkohe. Mio padre morì quando io ero soltanto un ragazzetto, dopo una malattia piuttosto lunga. Quando spirò, coloro che l'avevano vegliato gli chiusero con cura gli occhi, poi lo rivestirono dei suoi abiti migliori, gli ridipinsero la faccia, lo avvilupparono in una ricca coperta, sellarono il suo cavallo favorito, misero in testa al corteo le sue armi e, conducendo per la briglia il suo cavallo, trasportarono il suo corpo in una caverna nelle montagne mentre ripetevano in tono lamentoso le sue gesta valorose. Infine trucidarono i suoi cavalli. Noi distribuimmo tutte le altre cose di sua proprietà, come si usava nella nostra tribù, dopo di che il suo corpo fu deposto nella caverna, con le armi accanto. La sua tomba è nascosta da mucchi di pietre. Avvolto nel suo splendore, giace in solitudine, e il vento frusciando tra i pini mormora al guerriero morto il canto del riposo.
Dopo la morte di mio padre ebbi cura di mia madre, la quale non si sposò un'altra volta, sebbene, secondo gli usi della nostra tribù potesse farlo immediatamente dopo la morte del marito.
Di solito però la vedova che ha figli, dopo la morte del marito, non si risposa per due o tre anni; invece la vedova senza figli passa immediatamente a seconde nozze. Dopo la morte di un guerriero la vedova ritorna dai suoi e può essere concessa o venduta dal padre o dai fratelli. Mia madre preferì abitare con me e non desiderò mai rimaritarsi. Continuammo a vivere vicino alla nostra vecchia dimora e io la mantenni.
Nel 1846, all'età di diciassette anni, fui ammesso nel consiglio dei guerrieri. Fui allora molto felice, poiché potevo andare dove volevo e fare tutto ciò che mi piaceva. Non ero stato sottoposto all'àutorità di nessuna persona, ma le usanze della tribù mi vietavano di partecipare alle glorie del sentiero di guerra prima che il consiglio mi ammettesse. Ora invece sarei potuto scendere sul sentiero di guerra con la tribù quando se ne fosse presentata l'occasione. Questo sarebbe stato meraviglioso. Speravo di poter presto essere utile al mio popolo in battaglia.
Da lungo tempo desideravo combattere con i nostri guerrieri.
Ora avrei potuto sposare la bella Alope, figlia di No-po-so, e questa fu forse per me la gioia più grande. Era una ragazza snella e delicata, e ci amavamo da molto tempo. Così, appena il consiglio mi concesse questi privilegi, andai a trovare suo padre per parlargli del nostro matrimonio. Forse il nostro amore non aveva interesse per lui; forse desiderava tenere con sé Alope, perché era una figlia ubbidiente: a ogni modo, chiese per lei molti pony. lo non replicai, ma dopo qualche giorno ricomparvi davanti al suo wigwam con una mandria di cavallini e mi presi Alope. La cerimonia nuziale richiesta dalla nostra tribù era tutta qui.
Non lontano dal tepee di mia madre avevo costruito per noi una nuova casa. Il tepee era fatto di pelli di bufalo e conteneva molte vesti di pelliccia d'orso, pelli di puma e altri trofei di caccia, oltre alle mie lance, ai miei archi e frecce. Alope aveva fatto molte piccole decorazioni di perline e dipinto pelli di cervo, che dispose nel nostro tepee. Decorò anche di disegni le pareti della nostra casa. Fu una buona moglie ma non fu mai robusta. Seguimmo le tradizioni dei nostri padri e fummo felici. Ci nacquero tre figli: figli che giocarono, oziarono, e lavorarono come avevo fatto io.
KAS-KI-YEH
PARTE PRIMA -IL MASSACRO-
Nell'estate del 1858, essendo in pace con le città messi cane e anche con le tribù indiane confinanti, andammo a sud, nel Vecchio Messico, per commerciare. La nostra tribù al completo (gli apache bedonkohe) oltrepassò Sonora diretta verso Casa Grande, la nostra meta; ma poco prima di giungere in questo luogo ci fermammo in un'altra città messicana che gli indiani chiamavano « Kas-ki-yeh». Qui restammo parecchi giorni, accampati appena fuori della città. Tutti i giorni ci recavamo in città a far baratti, lasciando l'accampamento sotto la protezione di poche sentinelle, perché durante la nostra assenza non si danneggiassero le armi e le provviste, e non si disturbassero le donne e i bambini.
Una sera sul tardi, mentre ritornavamo dalla città, ci vennero incontro alcune donne e bambini: ci raccontarono che truppe messi cane di un'altra città avevano attaccato il campo uccidendo tutti i guerrieri di guardia, catturando tutti i nostri cavalli, impadronendosi di tutte le armi, distruggendo le scorte di viveri, massacrando molte donne e molti bambini. Subito ci separammo, nascondendoci come meglio potemmo fino al cader della notte, poi ci radunammo in un luogo d'incontro prestabilito: un bosco sulla riva del fiume. A uno a uno, silenziosi, entrammo nel campo: ponemmo sentinelle e, quando terminammo di contare i morti, seppi che la mia vecchia madre, la mia giovane moglie e i miei tre bambini erano stati trucidati insieme con gli altri. Nel campo non c'erano luci; mi allontanai allora senza che nessuno mi vedesse e andai vicino al fiume. Non saprei dire quanto vi restassi, ma quando vidi che i guerrieri stavano sedendosi a consiglio andai a prendere posto.
Quella notte non votai né pro né contro alcuna azione da parte nostra; fu anzi stabilito che, essendo rimasti in vita soltanto ottanta guerrieri, non avendo noi né armi né viveri, e trovandoci per di più circondati dai messi cani, molto addentro nel loro territorio, non potevamo sperare nella vittoria se avessimo combattuto. Pertanto il nostro capo, Mangus-Colorado, ci diede ordine di metterei subito in cammino verso i nostri villaggi dell' Arizona, lasciando i morti sul terreno.
Rimasi lì finché tutti se ne furono andati, senza sapere che fare: non avevo armi, anzi non avevo neppure voglia di combattere; e non mi proponevo neanche di ricuperare i corpi dei miei cari, perché mi era stato proibito. Non pregai, non presi nessuna speciale risoluzione, poiché ero rimasto senza volontà. Finii col seguire in silenzio la tribù, a distanza, tenendomi a portata d'orecchio del leggero rumore dei passi degli apache in ritirata.
Il mattino seguente qualche indiano uccise un po' di selvaggina. Ci fermammo il tempo sufficiente perché la tribù cuocesse la carne e si sfamasse, poi riprendemmo la marcia. lo non avevo ammazzato nessuna preda e non mangiai.
Tanto durante la prima marcia quanto durante la sosta in quel luogo non parlai a nessuno e nessuno mi parlò: non c'era nulla da dire. Procedemmo a marce forzate due giorni e tre notti, fermandoci solo per i pasti, poi ci accampammo vicino al confine messicano, dove riposammo due giorni. Qui assaggiai un po' di cibo e poi parlai con gli altri indiani che avevano perso qualcuno nel massacro ma nessuno aveva perduto tanto quanto me, che avevo perso tutto.
Dopo qualche giorno arrivammo al nostro villaggio. C'erano le decorazioni che Alope aveva fatto e c'erano i giocattoli dei nostri bambini.
Bruciai tutto, anche il nostro tepee. Bruciai anche la tenda di mia madre e distrussi tutte le cose di sua proprietà.
Non fui mai più contento nel nostro tranquillo villaggio. Potevo, sì, visitare la tomba di mio padre: ma avevo giurato di vendicarmi dei soldati messicani che mi avevano così crudelmente offeso, e tutte le volte che mi avvicinavo alla sua tomba o che mi capitava sotto gli occhi qualcosa che mi ricordasse i giorni felici di prima, mi sentivo ardere in cuore il desiderio di vendicarmi del Messico.
PARTE SECONDA - LA VENDETTA-
Appena avemmo raccolto un po' di armi e di viveri, Mangus-Colorado, il nostro capo, convocò il consiglio, e riscontrò che tutti i nostri guerrieri desideravano scendere sul sentiero di guerra contro il Messico. lo ricevetti l'incarico di cercare aiuto di altre tribù in questa guerra.
Quando arrivai dagli apache chokonen (chiricahua), il loro capo, Cochise, convocò il consiglio al primo spuntar del giorno. Silenziosamente, i guerrieri si radunarono all'aperto in una valletta montana, e presero i loro posti per terra, ordinati in file .secondo i loro gradi. Rimanevano sèduti e fumavano senza parlare. A un cenno del capo, io mi alzai e perorai la mia causa con queste parole:
« Fratelli, avete saputo quel che i messicani hanno fatto poco tempo fa senza provocazione.
Voi siete miei parenti: zii, cugini, fratelli. Siamo uomini come sono uomini i messicani possiamo fare a loro quel che hanno fatto a noi. Facciamoci avanti, inseguiamoli; vi condurrò nella loro città, li aggrediremo nelle loro abitazioni.
lo combatterò in prima fila, vi chiedo soltanto di seguirmi per vendicare questa offesa perpetrata da questi messicani, verrete? Va bene, tutti quanti verrete.
« Ricordate la legge della guerra; può darsi che gli uomini ritornino, può darsi che siano uccisi. Se qualcuno di questi giovani rimarrà ucciso, non voglio che i suoi parenti mi biasimino, poiché loro stessi hanno deciso di andare. Se muoio io, nessuno deve piangermi. La mia famiglia è stata tutta uccisa in quel paese, e anch'io, se necessario, morirò ».
Ritornato all'accampamento, riferii il buon esito del mio incarico al capo tribù, e immediatamente partii verso sud per andare nella terra degli apache nedni. Il loro capo, Whoa, mi ascoltò senza commenti, ma subito diede ordine di convocare il consiglio, e quando tutti furono pronti mi diede con un segno il permesso di parlare. Mi rivolsi a loro come mi ero rivolto alla tribù dei chokonen, e anch'essi promisero di aiutarci.
Nell'estate del 1859, quasi un anno dopo il giorno del massacro di Kaskiyeh, queste tre tribù si radunarono al confine messicano per scendere sul sentiero di guerra. Avevano i visi dipinti, le fasce da guerra 5 legate intorno alla fronte, le lunghe ciocche di capelli 6 pronte per la mano e il coltello del guerriero che li avesse sopraffatti. Le loro famiglie erano state nascoste in un punto prestabilito vicino al confine messicano. A queste famiglie era stata assegnata una scorta, e si era fissato un certo numero di luoghi di raduno nel caso che l'accampamento fosse disturbato.
Quando tutti furono pronti, i capi tribù diedero l'ordine di avanzare. Nessuno di noi era a cavallo; ogni guerriero calzava mocassini e portava un lembo di stoffa intorno alla cintola. Marciavamo di solito quattordici ore al giorno, ci fermavamo tre volte per mangiare, e percorrevamo sessantacinque-settanta chilometri al giorno. lo feci da guida per entrare nel Messico; seguimmo il corso dei fiumi e le catene delle montagne per riuscire a nascondere meglio i nostri movimenti. Entrammo nel Sonora, e continuammo verso sud oltrepassando Quitaro, Nacozari, e molti abitati minori.
Quando fummo nelle vicinanze di Arispe ci accampammo; otto uomini cavalcarono fuori della città per parlamentare. Li catturammo, li uccidemmo e li scotennammo. Questo doveva servire a attirare le truppe fuori della città; il giorno successivo arrivarono. La scaramuccia durò tutto il giorno senza trasformarsi in un vero combattimento, ma verso sera ci impadronimmo della carovana con i loro rifornimenti: ci procurammo così viveri in abbondanza e qualche altro fucile.
Quella notte ponemmo sentinelle e non spostammo l'accampamento; riposammo però tranquilli tutta la notte, poiché prevedevamo duri combattimenti per il giorno dopo. Molto presto, il mattino seguente, i guerrieri furono chiamati a pregare: non per chiedere di essere aiutati, ma di avere salute e di evitare gli agguati e le insidie tesi dal nemico.
Come avevamo previsto, verso le dieci del mattino uscirono le forze messicane al completo.
C'erano due compagnie di cavalleria e due di fanteria. Riconobbi nella cavalleria i soldati che avevano ucciso la mia gente a Kaskiyeh. Lo dissi ai capi tribù, che mi diedero il permesso di dirigere la battaglia. .
Non ero un capo e non lo ero mai stato ma, poiché ero stato offeso più crudelmente degli altri, ricevetti questo onore. Mi proposi di dimostrarmi degno della fiducia che mi era conferita.
Disposi gli indiani in cerchio vicino al fiume, e i messicani allinearono la fanteria su due righe, con la cavalleria di riserva. Noi eravamo tra gli alberi; gli altri avanzarono fino a circa quattrocento metri, poi si fermarono e aprirono il fuoco. Subito guidai una carica contro di loro, guardando contemporaneamente qualche valoroso attaccare la loro retroguardia. Durante tutta la battaglia pensai a mia moglie, a mia madre, ai miei bambini trucidati, pensai alla tomba di mio padre e al mio giuramento di vendetta, e combattei con furore. Molti caddero per mano mia, e costantemente guidai l'avanzata. Molti valorosi furono uccisi. La lotta durò circa due ore.
Alla fine quattro indiani rimasero soli nel centro del campo: io e altri tre guerrieri. Le frecce erano state tutte scagliate, le lance si erano tutte spezzate dentro il corpo dei nemici uccisi. Non ci restavano per combattere che le mani e i coltelli: ma tutti coloro che ci erano venuti contro erano morti. In quel momento ci attaccarono, venendo da un'altra parte del campo, due soldati armati. Spararono colpendo due dei nostri uomini; noi due superstiti fuggimmo verso i nostri guerrieri. Il mio compagno fu abbattuto da una sciabolata, io invece raggiunsi i nostri guerrieri, afferrai una lancia e mi voltai. Quello che mi inseguiva fallì il colpo e fu ucciso dalla mia lancia. Armato della sua sciabola, andai contro il soldato che aveva ucciso il mio compagno, mi avvinghiai a lui e cademmo insieme. Lo uccisi col coltello, poi mi alzai fulmineo sul suo corpo e, brandendo la sua sciabola, cercai altri soldati da uccidere. Non ce n'erano. Ma gli apache avevano vinto. Sull'insanguinato campo di battaglia, ricoperto di cadaveri messicani, risuonò il fiero grido di guerra degli apache.
Grondante ancora del sangue dei nemici, brandendo ancora la mia arma vittoriosa, e ancora acceso dalla gioia della battaglia, della vittoria e della vendetta, fui circondato dai combattenti apache e acclamato capo di guerra di tutti gli apache.
COMBATTIMENTI POCO FORTUNATI
Dopo la battaglia di « Kaskiyeh » tutti gli altri apache erano soddisfatti, io invece desideravo vendicarmi ancora. Per parecchi mesi fummo occupati nella caccia e in altre faccende pacifiche.
Finalmente riuscii a persuadere due altri guerrieri, Ah-koch-ne e Ko-deh-ne, a venire con me per invadere il territorio messicano.
Lasciammo le nostre famiglie con la tribù e scendemmo sul sentiero di guerra. l Andavamo a piedi portando razioni di viveri per tre giorni.
Entrammo nel Messico al confine nord del Sonora e seguimmo le montagne della Sierra de Antunez fino al limite meridionale della catena.
Qui prendemmo la risoluzione di attaccare un piccolo villaggio. (Non so il nome di questo villaggio.) All'alba lo avvicinammo scendendo dalle montagne. C'erano quattro cavalli legati fuori delle case. Avanzammo con circospezione, ma proprio prima che raggiungessimo i cavalli i messicani aprirono il fuoco dalle case. I miei due compagni furono uccisi. I messicani irruppero da ogni parte, qualcuno a cavallo, qualcuno a piedi, e tutti sembravano armati. Quel giorno fui accerchiato tre volte, ma non smisi di combattere, schivare, nascondermi. Parecchie volte durante quella giornata, mentre mi acquattavo, ebbi l'opportunità di prendere bene la mira verso qualche messicano che, tenendo in mano il fucile, mi stava cercando: penso di non aver sbagliato il colpo in nessuna occasione. Quando si fece buio trovai modo di ritirarmi verso l'Arizona. Ma i messicani non rinunciarono all'inseguimento. Parecchie volte, il giorno seguente, messi cani a cavallo tentarono di intercettarmi; molte volte mi spararono contro, ma io non avevo più frecce. Dovetti quindi fare assegnamento sulla corsa tenendomi al coperto, benché fossi stanchissimo. Non avevo più mangiato da quando era incominciata la caccia, e non avevo più osato fermarmi per riposare. La seconda notte mi liberai degli inseguitori, ma non rallentai affatto la marcia fino a quando giunsi a casa, nell' Arizona. Arrivai all'accampamento senza bottino, senza i miei compagni, esausto, ma non scoraggiato.
Delle mogli e dei figli dei miei due compagni morti si presero cura le loro famiglie. Qualche apache mi biasimò per il cattivo esito della spedizione, ma non dissi nulla. Avendo sbagliato, era più che conveniente che io facessi. Ma i miei sentimenti nei riguardi dei messi cani non cambiavano li odiavo ancora e bramavo la vendetta. Non smisi mai di fare piani per punirli, ma era difficile convincere gli altri guerrieri a ascoltare le mie proposte di incursioni.
Qualche mese dopo quest'ultima avventura persuasi due altri guerrieri a partecipare con me a una razzia alla frontiera messicana. Nella spedizione precedente avevamo attraversato la zona degli apache nedni e eravamo entrati nel Sonora.
Questa volta percorremmo la regione dei chokon-en e ci addentrammo nelle montagne della Sierra Madre. Ci dirigemmo a sud, ci procurammo altri viveri e ci preparammo alle prime incursioni. Avevamo prescelto un villaggio vicino alle montagne con l'intenzione di attaccarlo all'alba. Quella notte, mentre dormivamo, degli esploratori messi cani scoprirono il nostro bivacco e spararono su noi, uccidendo un guerriero.
Il mattino osservammo una compagnia di truppe messicane che arrivavano da sud. Erano a cavano e portavano viveri per un lungo viaggio.
Seguimmo il loro percorso finché fummo sicuri che si stavano dirigendo verso il nostro territorio nell' Arizona. Arrivammo a mezzogiorno, e quello stesso pomeriggio, verso le tre, le truppe messicane attaccarono le nostre abitazioni. La prima raffica uccise tre bimbetti. Molti guerrieri della nostra tribù erano lontani da casa, ma quei pochi di noi che erano nell'accampamento riuscirono a respingere le truppe dalle montagne prima di notte. Noi uccidemmo Otto messicani e perdemmo cinque dei nostri: due guerrieri e tre bambini. I messi cani cavalcarono verso sud in piena ritirata. Quattro guerrieri furono incaricati di inseguirli; dopo tre giorni gli inseguitori ritornarono, riferendo che la cavalleria messicana aveva lasciato l'Arizona diretta a sud. Eravamo del tutto sicuri che non sarebbero tornati tanto presto.
Poco dopo questi fatti (nell'estate del 1860) mi fu di nuovo possibile scendere sul sentiero di guerra contro i messicani, questa volta con venticinque guerrieri. Ci mettemmo sulle tracce delle truppe messicane di cui ho parlato poco fa e entrammo nelle montagne della Sierra de Sahuaripa. Dopo due giorni tra questi monti i nostri esploratori scoprirono soldati messi cani a cavano. Queste truppe erano costituite da un'unica compagnia di cavalleria: pensai che sorprendendola al momento buono avremmo potuto sconfiggerla. Tendemmo un agguato sulla pista che doveva percorrere, in un punto dove l'intera compagnia era obbligata a passare in una gola tra le montagne. Non sparammo finché tutte le truppe non furono passate, poi lanciammo il segnale. I soldati messicani, si sarebbe detto senza ricevere nessun ordine, smontarono, disposero i cavalli all'esterno della compagnia per usarli come riparo, e ingaggiarono contro di noi un duro combattimento. Avvedendomi che non saremmo riusciti a sloggiarli senza usare tutte le nostre munizioni, guidai i miei all'assalto. I guerrieri all'improvviso li aggredirono da tutte le parti; combattemmo a corpo a corpo. Durante questo scontro io sollevai la lancia per uccidere un soldato messicano proprio mentre spianava il fucile contro di me; stavo avanzando rapidamente, quando scivolai con il piede su una pozza di sangue e caddi sotto il soldato messicano, che mi colpì alla testa con il calcio del fucile, tramortendomi. Proprio in quel momento un guerriero che mi seguiva a passo a passo uccise il messicano con un colpo di lancia. Dopo qualche minuto non rimaneva più un solo soldato messicano vivo. Quando il loro grido di guerra si spense, e quando i loro nemici furono scotennati, gli apache si occuparono dei morti e dei feriti. Mi trovarono steso senza conoscenza dove ero caduto.
Mi bagnarono il capo con acqua gelida e mi fecero riprendere i sensi. Poi mi fasciarono la ferita. Il mattino seguente, sebbene fossi debole per la perdita di sangue e soffrissi di forti dolori al capo, fui in grado di marciare sulla via del ritorno verso l'Arizona. Non guarii bene che dopo molti mesi; ancora adesso ho la cicatrice della ferita prodotta da quel fuciliere.
In quel combattimento le nostre perdite furono tanto gravi, che la vittoria non ebbe in realtà nulla di glorioso. Ritornammo in Arizona. Sembrava che per quell'anno nessuno avesse voglia di scendere di nuovo sul sentiero di guerra.
Nell'estate (1861) penetrai nuovamente nel Messico con dodici guerrieri. Entrammo nel Chihuahua e proseguimmo verso sud lungo il fianco orientale delle montagne della Sierra Madre con quattro giorni di marcia, poi piegammo verso la catena della Sierra de Sahuaripa, nelle vicinanze di Casa Grande, a est. Qui riposammo un giorno, e mandammo esploratori in ricognizione. Ritornarono a riferire che c'erano colonne di rifornimenti accampate a otto chilometri da noi. Il mattino successivo, proprio all'alba, mentre i conducenti mettevano in marcia la loro colonna di muli, li attaccammo. Fuggirono al galoppo per salvarsi la vita, lasciandoci il bottino.
I muli erano carichi di rifornimenti, che prendemmo quasi tutti per portarli a casa. Due muli avevano una soma di lardo o prosciutto, che buttammo via. Ci incamminammo per guidare queste colonne di rifornimenti a casa, dirigendoci a nord attraverso il Sonora, ma quando ci trovavamo vicino a Casità fummo raggiunti da truppe messicane. Il giorno sorgeva, noi stavamo finendo la nostra colazione. Non ci eravamo affatto accorti di essere stati inseguiti, e neppure dell'avvicinarsi dei nemici, finché non aprirono il fuoco. Alla prima raffica una pallottola mi sfiorò proprio l'estremità dell' occhio sinistro in basso e mi fece cadere svenuto. Tutti gli altri indiani fuggirono al riparo. I messicani, credendomi morto, si misero a inseguire gli indiani in fuga. Dopo qualche minuto ricuperai i sensi, e mi avviai di gran carriera verso i boschi; ma ecco sopraggiungere un'altra compagnia che si mise a spararmi addosso. In quel momento ritornarono i soldati che avevano inseguito gli altri indiani, di modo che io mi .trovai tra due fuochi: ma non rimasi a lungo tra le due compagnie nemiche. Le pallottole fischiavano in ogni direzione e mi passavano vicinissime. Una pallottola mi provocò una ferita superficiale sul fianco, ma continuai a correre, a schivare e a combattere, finché mi sbarazzai degli inseguitori. Mi arrampicai su per un ripido can6n, dove la cavalleria non poteva seguirmi. I soldati mi videro, ma non smontarono da cavallo per venirmi dietro. E penso che fu una saggia decisione da parte loro.
Eravamo intesi che, se fossimo stati sorpresi con questo bottino, ci saremmo ritrovati in un punto prestabilito, nelle montagne di Santa Bita in Arizona. Non ci radunammo di nuovo nel Messico, ma viaggiammo separati; tre giorni dopo eravamo accampati nel luogo dell'appuntamento. Da questo posto ritornammo a casa a mani vuote. Non avevamo neppure riportato una vittoria parziale che si potesse raccontare. lo ritornavo un'altra volta ferito, ma non ero ancora scoraggiato. Di nuovo la mia gente mi biasimò, e di nuovo io non replicai.
Dopo il nostro ritorno molti guerrieri andarono a caccia e qualcuno di loro andò a nord a acquistare coperte dagli indiani navaho. lo rimasi a casa cercando di curarmi le ferite. Un mattino all'alba, mentre le donne stavano accendendo i fuochi dell'accampamento per preparare la colazione, tre compagnie di truppe messicane che avevano circondato le nostre abitazioni durante la notte aprirono il fuoco. Non ci rimase tempo per lottare. Uomini, donne e bambini fuggirono per salvare la pelle. Molte donne e bambini e qualche guerriero furono uccisi.
Quattro donne furono fatte prigioniere. Avevo l'occhio sinistro ancora gonfio e chiuso, ma con l'altro vidi abbastanza bene da poter colpire uno degli ufficiali con una freccia e poi mettermi in salvo tra le rocce. I soldati bruciarono i nostri tepee e ci presero le armi, i viveri, i cavalli, e le coperte. L'inverno era vicino.
In quel momento non c'erano nell'accampamento più di venti guerrieri, e soltanto qualcuno di noi aveva preso le armi durante l'eccitazione dell'attacco. Alcuni guerrieri si misero alle calcagna delle truppe che ritornavano nel Messico con il bottino, ma non poterono ingaggiare battaglia. Dovette passare molto, molto tempo, prima che riuscissimo a scendere di nuovo sul sentiero di guerra contro i messicani.
Le quattro donne che erano state fatte prigioniere dai messi cani in quell' occasione furono portate nel Sonora (Messico), dove furono costrette a lavorare per i messicani. Dopo qualche anno (incapparono nelle montagne e si misero a cercare la nostra tribù. Avevano dei coltelli rubati ai messicani, ma nessun'altra arma. Non avevano coperte, quindi, per la notte, si costruivano un piccolo tepee tagliando rami con i coltelli e formando con questi le pareti. Con altri rametti fabbricavano il tetto. In questo riparo provvisorio dormivano tutte insieme. Una notte, mentre il fuoco del bivacco era quasi spento, sentirono ringhiare appena fuori del tepee. Mentre la più giovane delle donne, Francisco (che aveva circa diciassette anni) si accingeva a ravvivare il fuoco, un puma irruppe nel rifugio e l'attaccò. Davanti a un assalto tanto improvviso, la ragazza lasciò cadere il coltello; lottò però con le mani come meglio poté. Era tuttavia troppo debole di fronte a un puma: ne ebbe la spalla sinistra schiacciata e quasi strappata. Difendendosi con le mani, riuscì a sventare i tentativi del puma di afferrarla alla gola. Vedendosi trascinata dal puma per quasi trecento metri e accorgendosi che le forze le mancavano per la perdita di sangue, chiamò finalmente le altre donne in aiuto. Il puma l'aveva trascinata per un piede, e la donna si era aggrappata alle sue zampe, alle pietre, alla vegetazione, per farlo fermare. Finalmente la belva si arrestò e le si avventò contro.
Essa chiamò di nuovo le compagne, che attaccarono il puma con i coltelli e l'uccisero. Poi medicarono le sue ferite, e la curarono rimanendo in quelle montagne per circa un mese. Quando la ragazza fu di nuovo in grado di camminare, ripresero la marcia e raggiunsero senza altri incidenti la tribù.
Questa donna (Francisco) fu fatta prigioniera di guerra con gli altri apache e morì nella riserva di Fort Sill nel 1892. Il suo volto rimase sfigurato dalle cicatrici; non riacquistò più perfettamente l'uso delle mani. Le tre donne più anziane morirono prima che diventassimo prigionieri di guerra.
Molte donne e molti bambini furono portati.
via dai messicani in occasioni diverse. Pochi di loro riuscirono a ritornare, e lo fecero a costo di innumerevoli sofferenze per riunirsi di nuovo alla loro gente. Quelli che non scapparono rimasero schiavi dei messicani oppure subirono forse degradazioni ancora peggiori.
Quando i messicani catturavano dei guerrieri, li mettevano in catene. Quattro guerrieri che furono presi una volta in un posto a nord di Casa Grande, chiamato dagli indiani « Honas », furono tenuti in catene per un anno e mezzo, finché furono scambiati con nostri prigionieri messicani.
I nostri prigionieri non erano mai incatenati o tenuti segregati, eppure scappavano raramente. Quando catturavamo dei messicani, obbligavamo gli uomini a tagliare la legna e a pascolare i cavalli, e trattavamo le donne e i bambini come se appartenessero al nostro popolo.
INCURSIONI VITTORIOSE
Nell'estate del 1862 presi con me otto uomini e penetrai in territorio messicano. Ci dirigemmo verso sud tenendoci per cinque giorni lungo il fianco occidentali delle montagne della Sierra Madre; poi, una notte, passammo nella parte meridionale della catena della Sierra de Sahuaripa.
Qui ci accampammo di nuovo per spiare l'arrivo di carovane di rifornimenti. Verso le dieci del mattino seguente quattro conducenti a cavallo passarono vicino al nostro campo con una colonna di muli da carico. Appena ci videro si misero in salvo al galoppo, lasciandoci il bottino.
Questa colonna era numerosa, e le bestie da soma erano cariche di coperte, pezze di cotone, selle, utensili di latta, zollette di zucchero. Ci affrettammo sulla via del ritorno alla massima velocità possibile, con queste provviste; e mentre, diretti verso casa, attraversavamo un canyon tra le montagne della catena di Santa Catalina in Arizona, incontrammo un bianco che conduceva una colonna di muli. Quando lo scorgemmo, l'uomo ci aveva già avvistati e stava cavalcando a tutta velocità su per il canyon. Esaminammo il suo carico e scoprimmo che i muli trasportavano formaggio. Li unimmo all'altra colonna e riprendemmo la marcia. Non cercammo d'inseguire il conducente, e sono sicuro che questi non tentò d'inseguire noi.
Due giorni dopo arrivammo a casa. Allora Mangus-Colorado, il nostro capo, radunò la tribù. Vi fu un banchetto, il bottino fu diviso, e le danze durarono tutta la notte. Qualche mulo della colonna fu ucciso e mangiato.
Questa volta, dopo il nostro ritorno, mandammo in esplorazione qualcuno dei nostri, per essere informati nel caso che le truppe messicane avessero tentato di inseguirei.
Dopo .tre giorni gli esploratori arrivarono all'accampamento con la notizia che la cavalleria messicana, appiedata, stava avvicinandosi alle nostre abitazioni. Tutti i guerrieri erano nel campo. Mangus-Colorado prese il comando di un reparto, e io di un altro. Speravamo di impadronirei dei loro cavalli e di circondare in seguito le truppe in montagna, distruggendo l'intera compagnia. Ma questo non riuscimmo a farlo, perché anche loro avevano mandato esploratori.
A ogni modo, quattro ore dopo l'inizio avevamo ucciso dieci soldati perdendo un solo uomo, e la cavalleria messicana era in piena ritirata, inseguita da trenta apache armati, che non le diedero . tregua finché non fu penetrata ben dentro il territorio messicano. Quell'inverno non arrivarono altre truppe.
Per un lungo periodo ci fu grande abbondanza di viveri, di coperte, di vestiario. Avevamo inoltre una grandissima quantità di formaggio e di zucchero.
Un'altra estate (1863) scelsi tre guerrieri e andai a fare una razzia nel Messico. Andammo a sud, entrammo nel Sonora, ci accampammo tra le montagne della Sierra de Sahuaripa. Circa sessantacinque chilometri a ovest di Casa Grande c'è tra le montagne un villaggetto, che gli indiani chiamano « Crassanas». Ponemmo il nostro campo vicino a questo luogo e risolvemmo di assaltarlo. Avevamo osservato che verso mezzogiorno sembrava che nessuno si muovesse, e quindi decidemmo di attaccare a quell'ora. Il giorno seguente, a mezzodì, entrammo alla chetichella nella cittadina. Non avevamo fucili, ma eravamo armati di lance e di archi e frecce. Quando levammo il nostro grido di guerra per iniziare l'attacco, i messi cani fuggirono in ogni direzione:
nessuno di loro fece il minimo tentativo di combatterei.
Scagliammo qualche freccia contro i messicani che scappavano, ma ne ammazzammo uno solo.
Presto il silenzio ritornò tra le case; non si vedeva più nessun messicano.
Quando ci accorgemmo che tutti gli abitanti se ne erano andati, esaminammo le loro case e vi vedemmo tante cose strane. Quei messicani possedevano gran quantità e varietà di oggetti, che gli apache non avevano mai avuto. Non riuscimmo a capire che cosa fossero tante delle cose che trovammo nelle case; nei negozi invece vedemmo molte merci ,che ci occorrevano. Raccogliemmo allora 'una mandria di cavalli e di muli, e li caricammo quanto più possibile di viveri e di provviste.
Poi incolonnammo tutti questi animali e ritornammo sani e salvi in Arizona. I messicani
non ci inseguirono neppure.
Quando arrivammo nell'accampamento, chiamammo a raccolta la tribù e banchettammo tutto il giorno. Ognuno ricevette regali. La notte incominciarono le danze, e non cessarono che nel meriggio del giorno dopo.
Questa fu forse la nostra incursione più fortunata nel territorio messicano. Non conosco il valore del bottino, ma fu altissimo, poiché le provviste durarono all'intera tribù per un anno e anche più.
Nell'autunno del 1864 venti guerrieri erano disposti a compiere un'altra scorreria nel Messico. Erano tutti uomini scelti, ben armati e ben equipaggiati per combattere. Come il solito, prendemmo provvedimenti per l'incolumità delle nostre famiglie prima di iniziare l'incursione.
Tutta la tribù si disperse, poi si riunì in un accampamento a una sessantina di chilometri dal posto precedente. In questo modo ai messicani sarebbe stato difficile seguire le sue tracce, e noi avremmo saputo dove ritrovare le nostre famiglie al ritorno. Inoltre, se qualcuno degli indiani ostili, vedendo un tal numero di guerrieri che abbandonavano il territorio, avesse voluto attaccare il campo, non avrebbe trovato nessuno nel nostro solito posto; la loro scorreria sarebbe finita in un fiasco.
Ci dirigemmo a sud attraverso le terre degli apache chokonen, entrammo nel Sonora (Messico), in un punto esattamente a sud di Tombstone nell' Arizona, e andammo a nasconderci tra le montagne della Sierra de Antunez.
Attaccammo parecchi abitati dei dintorni e ci impadronimmo di gran quantità di viveri e di altri beni. Dopo circa tre giorni assalimmo e catturammo una colonna di muli in un posto chiamato dagli indiani « Pontoco », situato in montagna, a circa una giornata di viaggio da Arispe, verso occidente.
Con questa colonna c'erano tre conducenti.
Uno fu ucciso, due scapparono. La colonna trasportava mescal, contenuto in bottiglie dentro ceste di vimini. l Appena ci fummo accampati, gli indiani incominciarono a ubriacarsi e a combattere fra loro. Anch'io bevvi tanto mescal da sentirne gli effetti, ma non presi una sbornia. 2 Ordinai che le zuffe cessassero, ma il mio ordine fu disubbidito, e poco dopo nel campo si svolgeva una mischia generale. Cercai di porre sentinelle intorno al campo, ma erano tutti ubriachi e rifiutavano il servizio. Mi attendevo un attacco delle truppe messicane da un momento all'altro;
per me era una questione di estrema gravità, perché, avendo il comando della spedizione, sarei stato giudicato responsabile se fosse successo qualche brutto guaio. Finalmente il campo divenne relativamente tranquillo, poiché gli indiani erano ormai troppo ebbri da poter camminare o azzuffarsi. Mentre erano in questo stato d'incoscienza, rovesciai per terra tutto il mescal, spensi tutti i fuochi e spostai i muli da carico a una buona distanza dall'accampamento. Fatto questo, ritornai al campo e cercai di aiutare in qualche modo i feriti. Riscontrai che soltanto due avevano ferite pericolose. Estrassi dalla gamba di uno di loro una punta di freccia, e dalla spalla dell'altro tirai fuori una punta di lancia.
Quando ebbi curato tutte le ferite, montai io stesso la guardia fino al mattino. Il giorno seguente caricammo i feriti sui muli e partimmo per l'Arizona. Il giorno dopo catturammo un po' di bestiame di una mandria e lo portammo a casa con noi. Fu però una faccenda tutt'altro che facile condurre H bestiame andando a piedi. Il nostro viaggio fu noioso perché bisognava fare attenzione ai feriti e impedire alle mucche di scappare.
Ma nessuno seguì le nostre tracce, e arrivammo a casa sani e salvi con tutto il bottino.
Vi furono un banchetto e una danza, e la divisione delle spoglie. Dopo la danza uccidemmo tutto il bestiame e seccammo la carne. Conciammo le pelli, nelle quali avvolgemmo poi la carne secca e la riponemmo. Durante tutto quell'inverno la carne fu abbondante. Prima di allora non avevamo mai avuto bovini. Di solito ammazzavamo e mangiavamo i muli, che a noi non servivano affatto. Se non potevamo scambiarli con qualcosa che ci fosse utile, li macellavamo.
Nell'estate del 1865, con quattro guerrieri, andai di nuovo nel Messico. Fino allora avevamo sempre marciato a piedi, essendo abituati a combattere appiedati e potendoci nascondere più facilmente se eravamo senza cavalcature. Ma questa volta desideravamo altro bestiame, e condurlo a piedi era una fatica improba. Entrammo nel Sonora in un punto a sudovest di Tombstone, nell' Arizona, e seguimmo le montagne della Sierra de Antunez fino alla loro estremità meridionale, poi attraversammo il paese spingendoci a sud fino alla foce del fiume Yaqui. Qui vedemmo un gran lago che si stendeva a perdita d'occhio. Volgemmo a nord, assalimmo parecchi abitati, e ci procurammo viveri in gran quantità. Sulla via del ritorno, a nordovest di Arispe, ci impadronimmo di circa sessanta capi di bestiame, e li conducemmo verso il nostro campo nell'Arizona. Non andammo direttamente a casa, ma ci accampammo in differenti valli con la nostra mandria. Nessuno seguì le nostre tracce. Quando arrivammo all'accampamento la tribù fu di nuovo radunata per banchettare e danzare. Distribuimmo regali a tutti; poi macellammo il bestiame, seccammo e riponemmo la carne.
ALTI E BASSI DELLA SORTE
Nell'autunno del 1865 ritornai nel Messico a piedi con altri nove guerrieri. Attaccammo numerosi abitati a sud di Casa Grande, e raccogliemmo molti cavalli e muli. Ci incamminammo verso nord con questi animali attraverso le montagne. Una sera ci accampammo nei pressi di Arispe e, pensando di non essere stati inseguiti, lasciammo libero l'intero armento, anche i cavalli che avevamo montato. Erano in una vallata circondata di montagne ripide e non si sarebbero potuti allontanare se non passando attraverso il nostro accampamento, che si trovava proprio all'imboccatura della valle. Avevamo appena incominciato a mangiare, quando i nostri esploratori vennero a avvertirei che truppe messicane si avvicinavano al campo. Ci dirigemmo verso i cavalli, ma sulle rupi sopra di noi c'erano truppe che gli esploratori non avevano avvistato, e che aprirono il fuoco. Ci disperdemmo in tutte le direzioni; le truppe si ripresero tutto il nostro bottino. Tre giorni dopo ei raccogliemmo nel luogo d'incontro prestabilito nelle montagne della Sierra Madre, nel Sonora settentrionale. Le truppe messi cane non ci inseguirono; tornammo nell'Arizona senza più combattere, e senza bottino. Una volta ancora non ebbi nulla da dire; ero però impaziente di compiere un'altra scorreria. Al principio dell'estate successiva (1866) portai trenta guerrieri a cavallo a invadere il territorio messicano. Attraverso il Chihuahua ci spingemmo a sud fino a Santa Cruz, nel Sonora, poi attraversammo le montagne della Sierra Madre, seguendo il corso del fiume che si trova nella parte meridionale della catena. Continuammo verso occidente dalle montagne della Sierra Madre fino alle montagne della Sierra de Sahuaripa, e seguimmo questa catena verso nord. Raccogliemmo tutti i cavalli, i muli e i bovini che volevamo, e li conducemmo verso settentrione attraverso il Sonora fino all'Arizona. I messicani ci avvistarono molte volte, e in molti posti, ma non ci attaccarono mai in nessuna occasione, e nessuna colonna di soldati tentò di inseguirei. Arrivati a casa, distribuimmo regali a tutti; la tribù banchettò e danzò. Durante questa scorreria erano stati uccisi una cinquantina di messicani.
L'anno dopo (1867) Mangus-Colorado guidò otto guerrieri in una razzia nel Messico. 1 lo vi andai come guerriero, perché ero sempre felice di combattere contro j messicani. Cavalcammo verso sud, oltrepassammo Tombstone nell'Arizona e entrammo nel Sonora (Messico). Attaccammo dei vaccari e, dopo uno scontro con loro in cui ne uccidemmo due, avviammo tutto il loro bestiame verso nord. Il secondo giorno del nostro viaggio con il bestiame, mentre ci trovavamo vicino a Arispe e non avevamo esploratori in giro, ci arrivarono addosso delle truppe messicane. Erano ben armate e avevano buone cavalcature; quando le avvistammo erano già a non più di mezzo miglio da noi. Abbandonammo il bestiame e cavalcammo di gran carriera verso i monti, ma i soldati guadagnavano terreno rapidamente. Poco dopo aprirono il fuoco, ma erano troppo lontani per poter essere colpiti dalle nostre frecce. Finalmente raggiungemmo qualche albero; lasciati i cavalli, ci mettemmo al riparo e ingaggiammo battaglia. Allora i messicani si fermarono, presero i nostri cavalli e attraversarono al galoppo le pianure verso Arispe, portando con sé il bestiame. Rimanemmo a osservarli finché scomparvero all'orizzonte, poi riprendemmo la nostra marcia verso casa.
Arrivammo alle nostre abitazioni cinque giorni dopo senza vittorie da raccontare, senza spoglie da dividere e senza neppure i cavalli con cui eravamo partiti per il Messico. Questa spedizione fu giudicata disonorevole.
I guerrieri che avevano partecipato a quest'ultima scorreria con Mangus-Colorado desideravano ritornare nel Messico: non erano soddisfatti e inoltre erano dolorosamente offesi dallo scherno degli altri guerrieri. Poiché Mangus-Colorado non volle guidarli laggiù un'altra volta, assunsi io il comando. Andammo a piedi direttamente verso Arispe nel Sonora, e ponemmo il campo sui monti della Sierra Sahuaripa. Eravamo soltanto in sei, ma compimmo razzie in parecchi villaggi (di notte) e catturammo numerosi cavalli e muli, che caricammo di viveri, selle, coperte. Quindi ritornammo nel!' Arizona, viaggiando solo di notte. Arrivati nel nostro accampamento, mandammo intorno esploratori per evitare che i messicani ci assalissero di sorpresa, radunammo la tribù, banchettammo, danzammo, dividemmo il bottino. Mangus-Colorado non volle accettare nulla di questa distribuzione, ma non gli prestammo attenzione. Nessuna compagnia messicana ci inseguì nell' Arizona.
Circa un anno dopo (1868) le truppe messicane accerchiarono e presero tutti i cavalli e i muli della tribù non lontano dalle nostre case. Quell'anno non eravamo andati a far scorrerie nel Messico, e non ci aspettavamo di essere assaliti.
Eravamo tutti nell'accampamento, appena ritornati da una caccia.
Verso le due del pomeriggio due esploratori messicani furono avvistati vicino al campo. Li uccidemmo, ma le truppe partirono con l'armento dei nostri cavalli e muli prima che li vedessimo. Sarebbe stato inutile tentare di raggiungerli a piedi: la nostra tribù non aveva più nemmeno un cavallo. Presi con me venti guerrieri e seguii le loro tracce. Trovammo il bestiame in una fattoria nel Sonora, non lontano da Nacozari, e attaccammo i vaccari che lo custodivano. Uccidemmo due uomini senza perdite da parte nostra. Dopo lo scontro portammo via il nostro armamento e tutto il loro.
Fummo inseguiti da nove cowbov. Raggiungemmo i nostri compagni, che viaggiavano sempre di notte e mai di giorno. Aggiungemmo questi cavalli all'armento e rimanemmo di nuovo indietro per intercettare chiunque altro ci inseguisse. Non so che cosa abbiano fatto quei nove vaccari il mattino seguente, e non ho mai saputo che i messicani abbiano raccontato qualche cosa di loro. So soltanto che non ci seguirono, perché non fummo più molestati. Quando arrivammo all'accampamento la tribù fece grandi festeggiamenti, e giudicò un bellissimo scherzo aver lasciato i messicani addormentati in montagna senza i loro cavalli.
Passò molto tempo prima che ritornassimo nel Messico o che i messicani venissero a disturbarci.
DURI COMBATTIMENTI
Verso il 1873 fummo attaccati di nuovo da truppe messicane nel nostro accampamento, ma le sconfiggemmo. Allora deliberammo di compiere scorrerie nel Messico. Muovemmo tutto il nostro campo, caricammo tutti i nostri beni su muli e cavalli, partimmo per il Messico e ci accampammo nelle montagne vicino a Nacori. Mentre spostavamo in questo modo il nostro accampamento, non volevamo che nessuno ci spiasse; quindi, se passavamo vicino a una casa messicana, ne uccidevamo di solito gli occupanti. Se però si arrendevano, non opponevano resistenza e non ci procuravano guai, li prendevamo prigionieri. Cambiavamo sovente il nostro luogo di convegno; in questi casi portavamo con noi i prigionieri, se ci seguivano docili, ma se erano riottosi li ammazzavamo. Ricordo un messicano nelle montagne della Sierra Madre che ci vide muovere e ci trattenne per qualche tempo. Ci pigliammo la briga di catturarlo, pensando che il saccheggio della sua casa avrebbe compensato il ritardo, ma dopo averlo ucciso non trovammo nella sua abitazione nessuna cosa che mettesse conto di prendere. Vagammo in quelle montagne più di un anno, facendo razzie negli abitati messicani per rifornirci, ma senza mai un vero combattimento contro truppe messicane, poi ritornammo nella nostra patria in Arizona. Dopo essere rimasti nell' Arizona per circa un anno, ritornammo nel Messico, e andammo a nasconderei fra le montagne della Sierra Madre. Il campo era vicino a Nacori. Avevamo appena predisposto bande di guerrieri per fare incursioni nella zona, quando gli esploratori avvistarono truppe messicane che venivano verso il nostro campo per attaccarci.
LA BATTAGLlA DI WHITE HILL
Il capo degli apache nedni, Whoa, era con me e comandava un reparto. Tutti i guerrieri marciarono verso le truppe e le incontrarono in un luogo a circa otto chilometri dal campo. Quando i soldati ci videro, cavalcarono rapidi in cima a un'altura, smontarono e si disposero dietro ai cavalli, usandoli come riparo. Si trovavano su una collina rotonda, molto scoscesa e rocciosa, che non aveva alberi sui fianchi. Erano due compagnie di cavalleria messicana, e noi eravamo una sessantina di guerrieri. Strisciammo su per la collina dietro le rocce, e i messicani ci tennero costantemente sotto il loro fuoco, ma avevo ammonito i guerrieri di non esporsi al tiro messicano.
Sapevo che i soldati avrebbero sprecato tutte le loro munizioni. Presto tutti i loro cavalli furono uccisi, ma i soldati continuavano a tenersi dietro di essi e a spararci contro. Noi avevamo già ucciso molti messicani, senza aver ancora perso un solo uomo. Essendo tuttavia impossibile avvicinarsi a loro in questo modo, pensai che fosse meglio condurre una carica contro di essi. Stavamo combattendo dall'una; verso la metà del pomeriggio, vedendo che non facevamo nessun progresso, diedi il segnale dell'avanzata. Quando risuonò il grido di battaglia, sbucammo fuori da ogni riparo di roccia, oltrepassammo i cavalli morti dei messicani e ingaggiammo una lotta a corpo a corpo. L'attacco fu tanto improvviso, che i messicani si misero a correre in ogni direzione, e in mezzo a tanto scompiglio furono spacciati tutti in qualche minuto. Allora scotennammo gli uccisi, portammo via i nostri morti e ci impadronimmo di tutte le armi che ci occorrevano. Quella notte spostammo l'accampamento verso est attraversando le montagne della Sierra Madre e entrando nel Chihuahua. Qui i soldati non ci molestarono, e dopo un anno circa ritornammo in Arizona.
Quasi tutti gli anni andavamo a passare qualche mese nel Vecchio Messico. In quell'epoca c' erano molti abitati nell' Arizona, e la caccia non era molto abbondante. Inoltre, ci piaceva scendere nel Vecchio Messico. Le terre degli apache nedni, nostri amici e parenti, si addentravano profondamente nel Messico, e il loro capo, Whoa, era come un fratello per me. Passavamo molto del nostro tempo nel suo territorio.
Verso il 1880 eravamo accampati nelle montagne a sud di Casa Grande quando una compagnia di truppe messicane ci attaccò. I soldati messicani erano ventiquattro, gli indiani una quarantina. I messicani piombarono di sorpresa sull'accampamento e fecero fuoco contro di noi, ammazzando due indiani con la prima raffica.
Non capii come avessero potuto scoprire il nostro campo; avevano probabilmente esploratori eccellenti, e le nostre sentinelle erano state negligenti. Ed eccoli spararci addosso prima ancora che sapessimo che erano vicini. Eravamo in un terreno boscoso; diedi ordine di avanzare e di combattere a breve distanza. Ci riparammo dietro a rocce e alberi finché arrivammo a dieci metri dalla loro linea, poi ci rizzammo. Entrambe le parti continuarono a sparare, fino a quando tutti i messi cani rimasero uccisi. Noi perdemmo dodici guerrieri in. questa battaglia.
Il nome indiano di questo posto era « Sko-Iata ». Dopo aver sepolto i nostri morti e preso tutti i viveri dei messicani, andammo verso nordest. In un punto vicino a Nacori fummo attaccati da truppe messicane. In questo luogo, che gli indiani chiamano « Nokode », si scontrarono un'ottantina di guerrieri, apache nedni e bedonkohe, e tre compagnie di soldati messicani. Questi ci attaccarono in campo aperto, e noi ci disperdemmo, sparando mentre correvamo. Ci inseguirono, ma ci sparpagliammo e riuscimmo in breve a sbarazzarci degli inseguitori. Ci radunammo allora sulle montagne della Sierra Madre. Qui tenemmo consiglio, e siccome le truppe messicane stavano arrivando da molte direzioni, ci sparpagliammo di nuovo.
Circa quattro mesi dopo ci radunammo a Casa Grande per concludere up trattato di pace. I capi della città di Casa Grande, e tutti gli uomini di Casa Grande, fecero un patto con noi. Ci stringemmo la mano e promettemmo di essere fratelli. Poi incominciammo a barattare, e i messicani ci diedero del mescal. In breve quasi tutti gli indiani furono ubriachi. Mentre erano ubriachi arrivarono da un'altra città due compagnie di soldati messicani, che ci attaccarono, uccisero venti indiani e ne fecero prigionieri un numero ancora maggiore. Noi fuggimmo in tutte le direzioni.
LA PIÙ VIOLENTA BATTAGLIA DI GERONIMO
Dopo il tradimento e il massacro di Casa Grande non ci radunammo di nuovo per molto tempo;
quando ci raccogliemmo, ritornammo in Arizona. Vi rimanemmo per un certo periodo, vivendo nella riserva di San Carlos, in un luogo che ora si chiama Geronimo. Nel 1883 ritornammo un'altra volta nel Messico. Ci fermammo tra le sue catene montuose per circa quattordici mesi, e durante questo periodo avvennero molte scaramucce con le truppe messicane. Nel 1884 ritornammo nell' Arizona per convincere altri apache a venire con noi nel Messico. I messicani stavano raccogliendo truppe sulle montagne dove noi avevamo vagato, e erano in numero tanto superiore al nostro, che non potevamo sperare di combatterli e vincerli. Eravamo ormai stanchi di essere costretti a vagabondare da un posto all'altro, sempre braccati.
In Arizona successero incidenti fra noi e i soldati degli Stati Uniti, e così ritornammo nel Messico. In Arizona avevamo perso una quindicina di guerrieri, e non avevamo fatto nuove reclute.
Così ridotti di numero, ci accampammo sui monti a nord di Arispe. I nostri esploratori avvistarono truppe messi cane in parecchie direzioni.
Le truppe degli Stati Uniti stavano scendendo da nord. Eravamo ben armati di fucili e avevamo una buona scorta di munizioni ma, non piacendoci affatto essere circondati dalle truppe di due governi, partimmo e spostammo l'accampamento verso sud.
Una notte ponemmo il campo a una certa distanza dalle montagne, vicino a un corso d'acqua.
L'acqua non era molto abbondante, ma tracciava un profondo canale attraverso la prateria;
qualche alberello incominciava a crescere qua e là lungo le rive di questo torrente.
In quei giorni non ci accampavamo mai senza mandare uomini in ricognizione, poiché sapevamo di essere esposti a attacchi in qualsiasi momento. Il mattino seguente, proprio all'alba, arrivarono gli esploratori e misero in allarme il campo con l'annuncio che si stavano avvicinando soldati messicani. Già cinque minuti dopo i messicani sparavano contro di noi. Ci infilammo nei fossati scavati dall'acqua, e affidammo alle donne e ai bambini il compito di farli più profondi. Diedi severi ordini di non sprecare le munizioni e di tenersi al coperto. Ammazzammo molti messicani, quel giorno, e a nostra volta subimmo perdite numerose, poiché lo scontro durò tutta la giornata. Ripetute volte le truppe caricarono in un punto, furono respinte, poi si radunarono e sferrarono l'attacco in un altro punto.
Verso mezzogiorno incominciammo a sentir pronunciare il mio nome accompagnato da maledizioni. Nel pomeriggio venne su} campo il generale e il combattimento si fece più furibondo. Diedi ordine ai miei guerrieri di tentar d'uccidere tutti gli ufficiali messicani. Verso le tre il generale chiamò a raccolta tutti gli ufficiali nella parte destra del campo. Il luogo in cui si radunarono non era molto lontano dal corso d'acqua principale, e un piccolo fossato scorreva vicino al punto in cui si trovavano gli ufficiali.
Con cautela camminai carponi in questo fosso finché arrivai vicinissimo al posto in cui si teneva consiglio. Il generale era un vecchio guerriero. Il vento soffiava nella mia direzione, di modo che potei sentire tutto quel che diceva e capire quasi tutto. 3 Il generale disse loro press'a poco questo: « Ufficiali, laggiù in quei fossati sta quel diavolo rosso di Geronimo con la sua odiata banda. Questo deve essere il suo ultimo giorno. Cavalcategli contro dai. due lati del fossato; uccidete uomini, donne, bambini; non fate nessun prigioniero; è di indiani morti che abbiamo bisogno. Non risparmiate i vostri uomini; sterminate la sua banda a ogni costo; disporrò i feriti con l'ordine di sparare a tutti i disertori; ritornate alle vostre compagnie e avanzate ».
Appena sentii dare il comando dell'avanzata, mirai con cura al generale, che cadde.
Quella sera, prima che gli spari cessassero, una dozzina di indiani strisciò fuori dei fossi e appiccò il fuoco all' erba alta della prateria dietro alle truppe messicane. Durante la confusione che seguì fuggimmo verso le montagne.
Questa fu l'ultima battaglia che combattei contro i messicani. Da quel momento truppe degli Stati Uniti ci stettero alle calcagna continuamente, finché fu concluso il trattato con il generale Miles al cafi6n dello Scheletro. Durante le mie molte guerre contro i messicani ricevetti otto ferite. Eccole: un colpo d'arma da fuoco alla gamba sinistra sopra il ginocchio, e la pallottola è ancora lì; un'altra palla attraverso l'avambraccio sinistro; un ferita di sciabola alla gamba destra sotto il ginocchio;
una ferita inferta con il calcio del moschetto sulla testa; una pallottola appena sotto l'estremità esterna dell'occhio sinistro; colpi d'arma da fuoco sul fianco sinistro e nella schiena. Ho ucciso molti messicani: non so quanti, perché sovente non li ho contati. Qualcuno di loro non era nemmeno degno di essere contato.
Da allora è passato tanto, tanto tempo, ma ancora adesso detesto i messicani. Con me furono sempre infidi e malvagi. Ora sono vecchio e non scenderò mai più sul sentiero di guerra ma, se fossi giovane e se ancora scendessi sul sentiero di guerra, questo mi condurrebbe nel Vecchio Messico.
L'ARRIVO DEI BIANCHI
Press'a poco all'epoca del massacro di « Kaskiyeh» (1858) venimmo a sapere che qualche uomo bianco stava facendo misurazioni del terreno a sud della nostra zona. Insieme con un certo numero di altri guerrieri andai a visitarlo. Non riuscimmo a capirli molto bene perché non avevamo un interprete; concludemmo però un patto con loro dandoci strette di mano e promettendo di essere fratelli. Allora ponemmo il campo vicino a quello dei bianchi, che vennero a commerciare con noi. Demmo loro pelli di cervo, coperte, pony, in cambio di camicie e di viveri.
Offrimmo loro anche la nostra cacciagione, per la quale ci diedero denaro. Non conoscevamo il valore di questo denaro, ma lo conservammo e in seguito gli indiani navaho ci dissero che era molto prezioso.
Tutti i giorni i bianchi misuravano la terra con strumenti strani e facevano segni che non potevamo capire. Erano uomini buoni; ci dispiacque quando continuarono la loro strada verso occidente. Non erano soldati. Questi furono i primi bianchi che vidi.
Circa dieci anni dopo arrivarono altri uomini bianchi. Questi erano tutti guerrieri. Si accamparono sul fiume Gila a sud di Hot Springs.
Da principio si dimostrarono amici e non provammo antipatia per loro; non erano però buoni come quelli che erano venuti prima. Dopo circa un anno sorsero difficoltà tra loro e gli indiani; io scesi sul sentiero di guerra come guerriero e non come capo. lNon ero io che avevo subito dei torti, ma li aveva patiti qualcuno del mio popolo, quindi combattei con la mia tribù. Infatti la colpa era dei soldati e non degli indiani.
Poco tempo dopo, alcuni ufficiali delle truppe statunitensi. invitarono i nostri capi a tenere un convegno a Apache Pass (Fort Bowie). Appena prima di mezzogiorno gli indiani furono fatti entrare in una tenda dicendo che si sarebbe portato loro qualcosa da mangiare. Quando si trovarono dentro furono aggrediti dai soldati. Il nostro capo Mangus-Colorado e molti altri guerrieri fecero uno strappo nella tenda e scapparono; invece la maggior parte dei guerrieri furono uccisi o fatti prigionieri. Fra gli apache bedonkohe uccisi quella volta furono Sanza, Kladetahe, Niyokahe e Gopi. Dopo questo tradimento gli indiani ritornarono sulle montagne, lasciando affatto in disturbato il forte. Non credo che l'agente avesse avuto niente a che fare con questo piano, perché ci aveva sempre trattati bene.
Penso che tutto fosse opera dei soldati.
Fin dal principio i soldati mandati nelle nostre terre occidentali, e gli ufficiali che li comandavano, non esitarono a maltrattare gli indiani. Non riferivano mai al governo quando un indiano pativa un torto, ma raccontavano sempre i misfatti degli indiani. Molte azioni compiute da bianchi ignobili furono riferite a Washington come opera del mio popolo.
Gli indiani cercarono sempre di vivere in pace con i soldati e i coloni bianchi. Un giorno, durante il periodo in cui i soldati erano di guarnigione a Apache Pass, strinsi un patto con la postazione. Lo sancimmo con strette di mano e promesse di essere fratelli. La medesima cosa fecero Mangus-Colorado e Cochise. Non conosco il nome dell'ufficiale che comandava quel posto: era il primo reggimento arrivato. Questo trattato fu fatto all'incirca un anno prima dell'aggressione sotto quella tenda, che ho raccontato sopra. Pochi giorni dopo che fummo assaliti a Apache Pass, raccogliemmo le nOstre forze in montagna e ritornammo a combattere i soldati. C'erano due tribù, quella degli apache bedonkohe e quella degli apache chokonen, comandate tutte e due da Cochise. Dopo scaramucce durate qualche giorno, attaccammo una colonna di rifornimenti, che stava portando viveri al forte. Alcuni degli uomini furono uccisi e altri fatti prigionieri. Il nostro capo offrì di scambiare questi prigionieri con gli indiani rimasti nelle mani dei soldati il giorno del massacro nella tenda. Poiché gli ufficiali non accettarono, uccidemmo i nostri prigionieri, ci disperdemmo e raggiungemmo i nascondigli sulle montagne. Di tutti coloro che parteciparono a questi fatti io sono l'unico superstite.
Pochi giorni dopo furono mandate delle truppe a cercarci, ma, giacché eravamo sparpagliati, fu naturalmente impossibile che i soldati avvistassero un accampamento nemico. Mentre ci stavano cercando, molti nostri guerrieri, che i soldati scambiarono per indiani pacifici, parlarono con gli ufficiali e gli uomini, spiegando loro dove avrebbero potuto trovare il campo che cercavano; e mentre ci davano la caccia noi li spiavamo dai nostri nascondigli e ridevamo del loro fiasco.
Dopo questi guai tutti gli indiani furono d'accordo a non essere mai più amici degli uomini bianchi. Non vi fu nessun impegno generale, ma ebbe inizio una lunga lotta. Talora noi attaccavamo i bianchi, .talaltra erano loro che ci attaccavano. Prima venivano uccisi degli indiani, poi alcuni soldati. Penso che le morti fossero più o meno uguali da una parte e dall'altra. In queste scaramucce non furono molti gli uomini . uccisi: però il tradimento compiuto dai soldati aveva irritato gli indiani e fatto rivivere ricordi di altri torti, cosicché noi perdemmo per sempre la fiducia nelle truppe degli Stati Uniti.
IL TORTO PIU GRAVE
Forse il torto più grave che gli indiani abbiano mai patito è il modo in cui fu trattata la nostra tribù dalle truppe degli Stati Uniti intorno al 1863. Il capo della nostra tribù, Mangus-Colorado, andò a concludere un trattato di pace per il nostro popolo con l'abitato bianco di Apache Tejo, nel Nuovo Messico. Ci era stato riferito che i bianchi di quel paese erano meglio disposti e più leali di quelli dell' Arizona, che avrebbero mantenuto i patti e che non avrebbero fatto torti agli indiani.
Mangus-Colorado, con tre altri guerrieri, andò a Apache Tejo e ebbe un colloquio con quei cittadini e quei soldati, i quali gli dissero che, se fosse andato a abitare con la sua tribù vicino a loro, gli avrebbero consegnato, da parte del governo, coperte, provviste, carne, e ogni sorta di viveri. Il nostro capo promise di ritornare a Apache Tejo due settimane dopo. Giunto al nostro villaggio, radunò in consiglio l'intera tribù. lo, non credendo che la gente di Apache Tejo fosse disposta a fare ciò che aveva promesso, mi opposi al progetto. Ma fu stabilito che una parte della tribù, insieme con Mangus-Colorado, ritornasse a Apache Tejo a ricevere quell'assegnazione di razioni e di forniture. Se queste avessero corrisposto alla descrizione e se quei bianchi avessero rispettato lealmente il patto, il resto della tribù avrebbe raggiunto Mangus-Colorado e noi ci saremmo stabiliti per sempre a Apache Tejo. lo ebbi !'incarico di restare al comando della parte della tribù che si fermava in Arizona. Demmo quasi tutte le nostre armi e munizioni a quelli che andavano a Apache Tejo, perché fossero pronti a affrontare ogni sorpresa, nel caso che vi fosse tradimento. Mangus-Colorado e press' a poco la metà della nostra gente partirono per il Nuovo Messico, felici di aver trovato finalmente dei bianchi ben disposti verso di loro, con cui vivere in pace e nell'abbondanza.
Non ci giunse mai nessuna notizia da loro.
Ma da altre fonti fummo informati che erano stati catturati a tradimento e massacrati. Non sapendo come comportarci in questo dilemma, nel timore che le truppe che li avevano catturati ci attaccassero, ci ritirammo sulle montagne vicino a Apache Passo Nelle settimane successive alla partenza del nostro popolo eravamo stati in ansia e, non avendo pensato a procurarci viveri, avevamo esaurito tutte le nostre scorte di cibo. Questo fu un altro motivo per spostare il campo. Durante questa ritirata, mentre ci trovavamo in montagna, avvistammo quattro uomini con una mandria. Due di loro erano davanti con un carrozzino, due dietro a cavallo. Li ammazzammo tutti e quattro, ma non li scotennammo. perché non erano guerrieri. Conducemmo il bestiame nelle nostre montagne, ponemmo il campo e incominciammo a macellare il bestiame e a insaccare le carni.
Prima che finissimo questo lavoro fummo sorpresi e attaccati da truppe degli Stati Uniti, che abbatterono in tutto sette indiani: un guerriero, tre donne e tre bambini. Le truppe del governo erano a cavallo, e lo eravamo anche noi, ma noi avevamo poche armi, perché le avevamo date quasi tutte alla parte della tribù che era andata a Apache Tejo. Combattemmo dunque soprattutto con lance, archi e frecce. Da principio avevo una lancia, un arco e qualche freccia; ma in breve terminai tutte le frecce e rimasi senza lancia. Una volta fui accerchiato, ma, gettandomi da una parte e dall'altra del cavallo per schivare i colpi, scappai al galoppo. Durante questo scontro molti guerrieri furono obbligati a lasciare i cavalli e a fuggire a piedi. Essendo invece il mio cavallo addestrato a ubbidire alla mia chiamata, appena mi trovavo in un posto sicuro, se non ero inseguito troppo da vicino, lo facevo venire da me. Durante questo combattimento ci sparpagliammo in tutte le direzioni e due giorni più tardi ci ritrovammo riuniti in un luogo di raduno prestabilito, a un'ottantina di chilometri dalla scena della battaglia.
Circa dieci giorni dopo, le medesime truppe degli Stati Uniti assalirono il nostro nuovo accampamento all'alba. Il combattimento durò tutto il giorno: ma fin dalle dieci del mattino le nostre lance e le nostre frecce erano finite, e per tutto il resto del tempo non ci rimasero che pietre e bastoni per lottare. Con tali armi non ci fu possibile infliggere grandi danni al nemico; nella notte spostammo l'accampamento di circa sei chilometri nell'interno delle montagne, dove la cavalleria avrebbe fatto fatica a inseguirci. Il giorno dopo gli esploratori che avevamo lasciato dietro di noi a osservare i movimenti dei soldati vennero a riferirei che le truppe erano tornate verso la riserva di San Carlos.
Pochi giorni dopo questi avvenimenti, fummo di nuovo attaccati da un altro reparto di truppe statunitensi. Appena prima del combattimento eravamo stati raggiunti da una banda di indiani chokonen guidati da Cochise che prese il comando di tutte e due le tribù. Fummo messi in fuga e stabilimmo di disperderei.
Dopo aver sciolto la tribù, gli apache bedonkohe si radunarono di nuovo vicino alloro vecchio accampamento, aspettando invano il ritorno di Mangus-Colorado e dei suoi compagni. Non arrivarono altre notizie che quelle del loro massacro a tradimento. Allora fu tenuto un consiglio e, poiché ormai eravamo convinti della morte di Mangus-Colorado, fui eletto capo tribale.
Per molto tempo non fummo molestati da nessuno. Più di un anno dopo la mia nomina a capo tribale, le truppe degli Stati Uniti attaccarono di sorpresa l'accampamento. Uccisero sette bambini, cinque donne,. quattro guerrieri, si impadronirono di tutte le nostre scorte, coperte, cavalli e vestiario, e distrussero i nostri tepee.
Non ci rimase nulla. L'inverno si avvicinava, e fu l'inverno più freddo che io abbia mai visto.
Quando i soldati .si ritirarono, presi con me tre guerrieri e seguii le loro tracce. Quelle tracce portavano verso San Carlos.
TRASFERIMENTI
Sulla via del ritorno dall'inseguimento delle truppe del governo scorgemmo due uomini, un messicano e un bianco, e li abbattemmo. Ci impadronimmo dei loro due cavalli e con questi ritornammo all'accampamento che spostammo. La mia gente soffriva molto e fu perciò giudicato conveniente andare dove si potevano avere più viveri. In quel momento la selvaggina era scarsa nel nostro territorio. Da quando ero capo tribale non avevo mai chiesto razioni al governo, e non mi piaceva farlo; ma non volevamo morire di fame.
Avevamo sentito dire che Victoria il capo degli apache chihenne (Ojo caliente) stava tenendo consiglio con i bianchi vicino a Hot Springs nel Nuovo Messico, e che aveva grandi scorte di viveri. Eravamo sempre stati in rapporti di amicizia con questa tribù, e Victoria era particolarmente ben disposto verso la mia gente. Trasportando sui due cavalli che avevamo catturato i nostri malati, andammo a Hot Springs. Victoria e la sua banda furono facili da trovare, e ci diedero rifornimenti per l'inverno. Rimanemmo con loro circa un anno, e durante questo soggiorno godemmo di assoluta tranquillità. Non avvennero scontri né con messicani né con bianchi né con indiani. Dopo esser rimasti lì il più a lungo possibile e aver accumulato di nuovo qualche scorta, decidemmo di separarci dalla banda di Victoria; questi, al mio annuncio che stavamo per andarcene, disse che avrebbe offerto un banchetto e una danza prima della separazione.
I festeggiamenti furono celebrati a circa tre chilometri sopra Hot Springs e durarono quattro giorni. A questa solennità parteciparono press'a poco quattrocento indiani. Non credo di aver mai avuto giorni più piacevoli di quelli.
Nessuno ha mai tI:attato la nostra tribù con maggior gentilezza di Victoria e della sua banda.
Ancora oggi siamo orgogliosi di dire che lui e il suo popolo ci furono amici.
Quando mi recai a Apache Pass (Fort Bowie), trovai al comando del forte il generale Howard, e conclusi con lui un patto. l Questo trattato durò ancora a lungo dopo che il generale Howard aveva lasciato il nostro paese. Mantenne sempre la sua parola con noi e ci trattò come fratelli. Ma nessun altro ufficiale degli Stati Uniti fu per noi un amico tanto fidato quanto il generale Howard. Avremmo potuto vivere per sempre in pace con lui. Se nell'esercito degli Stati Uniti c'è un bianco puro e onesto, quell'uomo è il generale Howard. Tutti gli indiani lo rispettano e ancora adesso parlano sovente dei tempi felici in cui il generale Howard aveva il comando del nostro posto. Quando se ne andò, mise a Apache Pass un agente con l'incarico di assegnarci vestiario, viveri e altri rifornimenti, da parte del governo, secondo i suoi ordini. 2 Quando veniva distribuita carne agli indiani, a me toccavano dodici manzi per la mia tribù, e altrettanti a Cochise per la sua. Le razioni erano assegnate circa una volta al mese, ma se rimanevamo sprovvisti, non avevamo che da chiederle, e ricevevamo altre scorte. Ora, come prigionieri di guerra in questa riserva, non abbiamo razioni altrettanto buone. Nella prateria, lontano da Apache Pass, un uomo teneva un negozio e una taverna. Qualche tempo dopo la partenza del generale Howard, una banda di indiani fuorilegge uccise quest'uomo e portò via dal suo negozio molte merci. Proprio il giorno dopo questo fatto, degli indiani del posto si ubriacarono di « tiswin» che si erano preparato con il mais. Si azzuffarono fra loro e cinque rimasero uccisi. Da qualche tempo c'erano litigi e inimicizie fra loro. Dopo questo guaio reputammo impossibile tenere unite in pace le diverse bande. Quindi ci separammo, e . ogni comandante portò con sé la sua banda. Alcuni andarono a San Carlos, altri nel Vecchio Messico. lo invece riportai la mia banda a Hot Springs e mi riunii di nuovo a quella di Victoria.
IN PRIGIONE E SUL SENTIERO DI GUERRA
Poco dopo il nostro arrivo nel Nuovo Messico furono inviate da San Carlos due compagnie di esploratori. Giunti a Bot Springs, mandarono a dire a me e a Victoria di andare in città. I messaggeri non riferirono i motivi della chiamata;
ma, poiché sembravano amichevoli, pensammo che desiderassero parlamentare e ci recammo a cavallo al convegno con gli ufficiali. Appena arrivati in città, ci vennero incontro dei soldati che ci disarmarono e ci portarono tutti e due al quartier generale, dove fummo processati dalla corte marziale. l Dopo averci posto qualche domanda lasciarono libero Victoria e condannarono me a essere rinchiuso nel posto di guardia. GH esploratori mi condussero in guardina e mi incatenarono. Quando chiesi loro la ragione di tutto questo, mi risposero che lo facevano perché avevo lasciato Apache Passo Non pensavo di essere mai appartenuto a quei soldati di Apache Pass, e neppure credevo di dover chiedere a loro dove sarei dovuto andare.
Le nostre bande non potevano più vivere insieme in pace: per questo ce n'eravamo andati tranquillamente con l'intenzione di andare a abitare con la banda di Victoria, dove reputavamo che nessuno ci avrebbe molestati. Anche altri sette apache furono condannati alle catene nel posto di guardia. Non capisco perché facessero ciò, dal momento che questi indiani si erano limitati a seguirmi da Apache Pass a Hot Springs. Se eravamo colpevoli per essere andati a Hot Springs (e io penso che non fosse una colpa), il biasimo doveva ricadere tutto su di me. Gli indiani chiesero ai soldati di guardia perché venivano imprigionati e incatenati, ma non ricevettero risposta.
Fui tenuto in prigione quattro mesi e durante questo periodo fui trasferito a San Carlos. Poi, penso, mi fecero un altro processo, sebbene non fossi presente. In realtà non so se ebbi un altro processo: mi dissero soltanto che l'avevo avuto, e a ogni modo fui rilasciato.
Dopo questi avvenimenti non sorsero altre difficoltà tra i soldati e noi, ma io non mi sentii mai più a mio agio in quel posto. Ci fu permesso di vivere sopra San Carlos in un luogo ora chiamato « Geronimo ». Qui c'era un agente che gli indiani chiamavano « Nick Golee». Tutto andò bene in quel posto per un periodo di due anni, ma noi non eravamo soddisfatti.
Nell'estate del 1883 correva voce che gli ufficiali avessero di nuovo intenzione di imprigionare i nostri capi. Queste dicerie servirono a ravvivare il ricordo di tutti i torti subiti in passato: il massacro nella tenda a Apache Pass, la sorte di Mangus-Colorado, la mia ingiusta prigionia, che avrebbe facilmente potuto significare per me la morte. Proprio in quell'epoca ci dissero che gli ufficiali volevano che risalissimo il fiume sopra a Geronimo fino a un forte (Fort Thomas) per avere un colloquio con loro. Pensando che da quell'incontro non poteva nascere nulla di buono, e ritenendolo del tutto inutile, ci radunammo in consiglio e stabilimmo di abbandonare la riserva per timore di tradimenti.
Reputavamo più degno per un uomo morire sul sentiero di guerra che essere ucciso in prigione.
In tutto c'erano all'incirca duecentocinquanta indiani, soprattutto apache bedonkohe e nedni, guidati da me e da Whoa. Oltrepassammo Apache Pass, e un po' a ovest di questo luogo ingaggiammo battaglia con truppe statunitensi. In questo scontro uccidemmo tre soldati e non subimmo perdite.
Proseguimmo verso il Vecchio Messico, ma due giorni dopo, verso le tre del pomeriggio, i soldati degli Stati Uniti ci raggiunsero; lottammo fino a sera. Le truppe ci attaccarono su un terreno molto accidentato: questo rappresentò un vantaggio per noi, perché il nemico fu costretto a smontare da cavallo per combattere.
Non so quanti soldati ammazzammo; noi perdemmo soltanto un guerriero e tre bambini. In quel periodo avevamo fucili e munizioni in abbondanza. Avevamo accumulato molti fucili e molte munizioni mentre vivevamo nella riserva;
altri ne avevamo ottenuti dagli apache White Mountain quando avevamo lasciato la riserva. Le truppe smisero di inseguirei; così proseguimmo verso sud fin quasi a Casa Grande, e ci accampammo nelle montagne della Sierra de Sahuaripa. Rimanemmo sui monti del Vecchio Messico per circa un anno. poi ritornammo a San Carlos, portando con noi un armento di cavalli e di bovini. Appena arrivammo a San Carlos il generale Crook, che era al comando, ci tolse i cavalli e le mucche. Gli dissi che quel bestiame non apparteneva agli uomini bianchi, ma a noi, che lo avevamo preso ai messi cani durante le nostre guerre. Gli dissi anche che non avevamo intenzione di macellare le bestie, ma che desideravamo tener1e per allevare bestiame nella nostra area. Andai a Fort Apache: il generale Crook diede ordine agli ufficiali, ai soldati e agli esploratori di fare in modo che io fossi arrestato, e mandò istruzioni di uccidermi se avessi opposto resistenza.
Gli indiani mi portarono questa informazione. Quando venni a conoscenza di questo piano d'azione, partii per il Vecchio Messico, e fui seguito da circa quattrocento indiani, apache bedonkohe, chokonen e nedni. A quell'epoca Whoa era morto, e Naiche era con me l'unico capo. Andammo a sud nel Sonora e ci accampammo nelle montagne. Le truppe ci seguirono, ma non ci attaccarono se non quando ponemmo l'accampamento sulle montagne a occidente di Casa Grande. Qui fummo aggrediti da esploratori indiani del governo. Un ragazzo fu ucciso, e quasi tutte le nostre donne e i nostri bambini furono fatti prigionieri. Dopo questa battaglia ci recammo a sud di Casa Grande e ci accampammo; ma, trascorsi pochi giorni, questo accampamento fu attaccato da soldati messicani. Fra noi e loro ci furono scaramucce tutto il giorno; qualche messicano cadde, poi invece non subimmo perdite.
Quella notte ci dirigemmo verso est e ci addentrammo tra le alture che precedono le montagne della Sierra Madre, e ponemmo un altro campo. Soldati messicani seguirono le nostre tracce, e dopo qualche giorno attaccarono di nuovo il campo. Questa volta i messi cani avevano un esercito molto numeroso; noi evitammo di lasciarci coinvolgere in un vero combattimento.
È stupido combattere quando non si può sperare di vincere.
Quella notte tenemmo un consiglio di guerra.
I nostri esploratori ci avevano annunciato la presenza di bande degli Stati Uniti e di truppe messicane in molti punti della montagna. Calcolammo che circa duemila soldati vagavano per queste montagne cercando di catturarci.
Il generale Crook era sceso nel Messico con le truppe degli Stati Uniti, e si era accampato sulle montagne della Sierra de Antunez. Poiché alcuni esploratori mi avevano detto che il generale Crook desiderava vedermi, mi recai nel suo campo. Quando vi arrivai, il generale Crook mi disse: « Perché hai lasciato la riserva?» Gli risposi: « Tu mi avevi detto che avrei potuto vivere nella riserva nello stesso modo degli uomini bianchi. Un anno coltivai Un campo di granturco, ne raccolsi la messe e la riposi; l'anno dopo seminai un campo di avena, e quando il raccolto era quasi pronto per la mietitura, tu hai comandato ai tuoi soldati di mettermi in prigione, e di uccidermi se opponevo resistenza. Se fossi stato lasciato in pace, ora sarei un uomo agiato, invece di essere qui braccato da soldati tuoi e messicani ». Il generale rispose: « Non ho mai dato simili ordini; le truppe di Fort Apache, che hanno diffuso queste voci, sapevano che non erano vere ». Allora acconsentii a tornare con lui a San Carlos. In quel momento facevo fatica a credergli.
Ora so che quel che disse non era vero, e sono fermamente sicuro che diede proprio ordine di mettermi in prigione o di uccidermi nel caso che avessi fatto resistenza.
LA LOTTA FINALE
Partimmo con tutta la tribù per ritornare con il generale Crook negli Stati Uniti, ma io, temendo un tradimento, decisi di rimanere nel Messico. In quel momento non eravamo sotto scorta.
Le truppe degli Stati Uniti marciavano in testa, gli indiani seguivano; quando divenimmo sospettosi, tornammo indietro. Non so fin dove mi abbia inseguito l'esercito degli Stati Uniti; qualche guerriero fece dietrofront prima che la nostra assenza fosse osservata, e a me non importa. Ho sofferto molto per ordini ingiusti come quelli del generale Crook. Tali azioni hanno provocato molte angosce al mio popolo. Penso che la morte fu mandata al generale Crook dall'Onnipotente come punizione delle molte cattive azioni da lui commesse.
Poco dopo il generale Miles assunse il comando di tutte le guarnigioni dell' ovest; le sue truppe ei davano ininterrottamente la caccia, sotto la guida del capitano Lawton, che aveva dei buoni esploratori. Anche i soldati messicani si fecero più attivi e numerosi. C'erano scaramucce quasi ogni giorno; finalmente stabilimmo di scioglierei per formare piccole bande. Con sei uomini e quattro donne mi diressi verso la zona montuosa vicino a Hot Springs, nel Nuovo Messico. Oltrepassammo molti allevamenti di bestiame, ma i cowboy non ci diedero fastidio. Ammazzavamo mucche tutte le volte che avevamo bisogno di cibo, ma sovente pativamo moltissimo per mancanza d'acqua. Ci successe di rimanere senz'acqua due giorni e due notti, i nostri cavalli rischiarono di morire di sete. Vagammo per le montagne del Nuovo Messico per qualche tempo, poi ritornammo nel Messico, pensando che forse i soldati se ne erano andati. Passando attraverso il Vecchio Messico aggredimmo ogni messicano che incontrammo, anche senza motivo, proprio solo per uccidere. Pensavamo che i messicani avessero chiamato nel Messico le truppe degli Stati Uniti per combatterei.
A sud di Casa Grande, vicino a un luogo che gli indiani chiamano Gosoda, passava una strada che usciva dalla città. Su questa" strada i messicani trasportavano molti carichi. Noi stavamo in agguato nascosti in un punto in cui la strada attraversava un passo di montagna, e tutte le volte che passavano messicani con merci li uccidevamo, prendevamo i rifornimenti che ci occorrevano e distruggevamo quanto rimaneva. Sprezzavamo il pericolo, perché sentivamo che ogni uomo era contro di noi. Se fossimo tornati alla riserva ci avrebbero messi in prigione e uccisi;
se rimanevamo nel Messico, avrebbero continuato a mandare soldati a combatterci. Dunque, non risparmiavamo a nessuno la vita, e non chiedevamo favori a nessuno.
Dopo qualche tempo lasciammo Gosoda;in pochi giorni ci riunimmo alla nostra tribù sulle montagne della Sierra de Antunez.
Diversamente da quanto avevamo previsto, i soldati degli Stati Uniti non avevano lasciato le montagne del Messico. Eravamo appena arrivati che già ci stavano alle calcagna e si azzuffavano con noi quasi ogni giorno. Quattro o cinque volte attaccarono di sorpresa il nostro campo. Una volta ci sorpresero verso le nove del mattino, si impadronirono di tutti i nostri cavalli (in tutto diciannove), e presero la nostra scorta di carne secca. 3 In questo scontro caddero tre indiani. A metà pomeriggio del medesimo giorno assalimmo la loro retroguardia mentre attraversavano una prateria e abbattemmo un soldato, ma senza perdite da parte nostra. In questa scaramuccia ricuperammo tutti i nostri cavalli eccetto tre che mi appartenevano. I tre che non riuscimmo a riprendere erano i nostri migliori cavalli da sella.
Poco dopo questi fatti concludemmo un patto con le truppe messicane, le quali ci dissero che i soldati degli Stati Uniti erano la vera causa di queste guerre, e acconsentirono a non combattere più contro di noi, purché ritornassimo negli Stati Uniti. Noi accettammo e ci rimettemmo in marcia, con !'intenzione di provare a stringere un patto con i soldati degli Stati Uniti e di tornare nell' Arizona. Ormai sembrava non rimanerci altro da fare.
Appena dopo ciò, alcuni esploratori delle truppe del capitano Lawton ci dissero che questi desiderava fare un trattato con noi; ma, sapendo che il capo delle truppe americane era il generale Miles, presi la decisione di trattare con lui. 4 Continuammo a spostare il campo verso nord, e anche le truppe americane si mossero verso nord, tenendosi a breve distanza da noi, senza però attaccarci. Mandai mio fratello Porico (Cavallo Bianco) con il signor George Wratton a Fort Bowie a vedere il generale Miles e a dirgli che desideravamo tornare in Arizona, ma prima che questi messaggeri rientrassero incontrai due esploratori indiani, Kayitah, un apache chokonen, e Marteen, un apache nedni, che erano al servizio delle truppe del capitano Lawton come esploratori.
Essi mi dissero che il generale Miles era arrivato e li aveva mandati a chiedermi d'incontrarlo. Allora mi recai al campo delle truppe degli Stati Uniti per incontrare il generale Miles. Giunto al campo andai direttamente dal generale Miles, gli raccontai i torti che avevo patito e gli dissi che volevo ritornare negli Stati Uniti con il mio popolo, poiché desideravamo tutti rivedere le nostre famiglie che erano state fatte prigioniere e portate lontano da noi.
Il generale Miles mi disse: « Il presidente degli Stati Uniti mi ha mandato a parlarti. È stato informato dei vostri guai con gli uomini bianchi e dice che se accetterete le clausole di un patto non incorreremo più in altre noie. Geronimo, se aderisci a un trattato di poche parole, ogni cosa si aggiusterà con soddisfazione di tutti».
Il generale Miles mi disse dunque che potevamo essere fratelli l'uno per l'altro. Alzammo le braccia al cielo e dicemmo che il trattato non sarebbe stato infranto. Pronunciammo il giuramento di non offenderei l'un l'altro e di non tramare l'uno contro l'altro.
Poi il generale parlò con me a lungo e mi disse che cosa avrebbe fatto per me in futuro se io avessi accettato il patto. Non prestavo molta fede al generale Miles, ma, poiché il presidente degli Stati Uniti si era interessato di me, acconsentii a concludere il trattato, e a osservarlo. Poi chiesi al generale Miles in che cosa sarebbero consis6ti i patti. Il generale Miles mi disse: « Ti metterò sotto la protezione del governo; ti farò costruire una casa; ti assegnerò molta terra cintata; ti darò bestiame, cavalli, muli e attrezzi agricoli. Sarai provvisto di uomini per lavorare nella fattoria, perché tu personalmente non dovrai lavorare. In autunno ti manderò coperte e vestiario perché non dobbiate patire il freddo nell'epoca invernale.
« C'è abbondanza di legname, acqua e erba nella terra in cui vi manderò. Vivrai con la tua tribù e la tua famiglia. Se aderisci a questo trattato rivedrai la tua famiglia fra cinque giorni ».
Dissi al generale Miles: « Tutti gli ufficiali che si sono occupati degli indiani hanno parlato in questa maniera, che mi suona falsa; stento molto a crederti ».
Egli rispose: « Questa volta è la verità ».
Gli dissi: « Generale Miles, non conosco le leggi dell'uomo bianco e non conosco neppure quelle del nuovo paese dove mi manderai, e potrei violarle ».
Rispose: « Finché sono vivo io, non sarai mai arrestato» .
Allora acconsentii a concludere il trattato. (Da quando sono prigioniero di guerra sono stato arrestato e messo in guardina due volte per aver bevuto whisky.) Eravamo in piedi, tra i suoi soldati e i miei guerrieri. Ponemmo una grossa pietra sulla coperta davanti a noi. Stringemmo su quella pietra il nostro patto, che sarebbe durato fino a quando la pietra si fosse sgretolata divenendo polvere. In questo modo concludemmo il trattato, e ci vincolammo l'uno all'altro con giuramento.
Credo di non aver mai violato quel patto; invece il generale Miles non ha mai. adempiuto le sue promesse. Quando contraemmo il patto, il generale Miles mi disse: « Fratello mio, tu hai in mente come uccidere uomini, e altri pensieri di guerra;
voglio che tu ti tolga queste idee dalla testa, e che le trasformi in pensieri di pace».
Allora accettai e consegnai le mie armi. Dissi:
« Abbandonerò il sentiero di guerra e vivrò d'ara innanzi in pace».
E il generale Miles spazzò e pulì con la mano un punto per terra e disse: « Le tue azioni passate saranno cancellate in questo modo: ricomincerai una nuova vita ».
PRIGIONIERO DI GUERRA
Quando mi fui arreso al governo mi misero sulla ferrovia della Southern Pacific e mi portarono a San Antonio, nel Texas, dove mi tennero per farmi un processo secondo le loro leggi. Dopo quaranta giorni mi trasferirono di lì a Fort Pickens (Pensacola), in Florida, dove mi misero a segare grossi .tronchi. Con me erano molti altri guerrieri apache, e tutti dovevamo lavorare ogni giorno. Per quasi due anni ci costrinsero a dure fatiche in questo posto e non rivedemmo le nostre famiglie che nel maggio del 1887. Questo modo d'agire era un'aperta violazione del trattato concluso al canyon dello Scheletro.
Dopo di ciò fummo mandati con le nostre famiglie a Vermont, nell' Alabama, dove rimanemmo cinque anni e lavorammo per il governo.
Non avevamo nessuna proprietà, e aspettai invano che il generale Miles mi mandasse in quella terra di cui aveva parlato; invano desiderai gli attrezzi, la casa, il bestiame che il generale Miles mi aveva promesso. In quell' epoca uno dei miei guerrieri, Fun, uccise se stesso e la moglie. Un altro colpì la moglie e poi si sparò. Cadde morto, ma la donna guarì e è ancora viva. In questo posto non stavamo bene di salute, perché il clima non era adatto a noi. Morivano moltissimi del nostro popolo, tanto che acconsentii a lasciare che una delle mie mogli andasse a vivere nell'agenzia di Mescalero nel Nuovo Messico. Secondo le nostre usanze, questa separazione corrisponde a quello che i bianchi chiamano divorzio; essa quindi si risposò poco dopo il suo arrivo a Mescalero. Tenne con sé i nostri due bambinetti, come aveva diritto di fare. Quei figli, Lenna e Rabbie, abitano ancora a Mescalero nel Nuovo Messico. Lenna è sposata. lo .tenni una moglie sola, che però ora è morta; con me ho soltanto nostra figlia Eva. Dopo la mia separazione dalla madre di Lenna non ho mai avuto più di una moglie per volta. In seguito alla morte della madre di Eva ho sposato un'altra donna (nel dicembre del 1905), ma la nostra vita non era felice e ci separammo. Essa ritornò a casa dalla sua famiglia: così avviene il divorzio tra gli apache. 4 Allora come adesso il signor George Wratton sovrintendeva agli indiani. Ha sempre avuto difficoltà con loro, perché li ha maltrattati. Un giorno un indiano, mentre era ubriaco, ferì il signor Wratton con un coltellino. L'ufficiale responsabile prese le parti del signor Wratton e mandò in prigione l'indiano.
Appena arrivammo a Fort Sill, questo era comandato dal capitano Scott, che fece costruire per noi case a spese del g-overno. Il governo ci diede anche mucche, porci, tacchini e polli. Gli indiani non se la cavarono molto bene con i porci, perché non capivano in che modo dovessero curarli; anche adesso sono pochi gli indiani che allevano maiali. Abbiamo ottenuto risultati migliori con i tacchini e le galline, pur non avendo con questi la fortuna che hanno gli uomini bianchi. Con le mucche ce la siamo cavata benissimo, invece, e ci piace allevarle. Abbiamo anche qualche cavallo; con i cavalli non siamo affatto sfortunati.
Nella questione della vendita del nostro bestiame e dei nostri cereali ci sono stati molti malintesi. Gli indiani avevano capito che il bestiame sarebbe stato venduto e che i soldi sarebbero andati a loro, invece una parte del denaro è data agli indiani e una parte è messa in quello che gli ufficiali chiamano « il fondo apache». Abbiamo avuto cinque ufficiali diversi qui per occuparsi degli indiani e tutti hanno comandato in modo molto simile: senza consultare gli apache e senza neppure dar loro spiegazioni. Può darsi che il governo abbia ordinato davvero agli ufficiali responsabili di mettere questo denaro del bestiame nel fondo degli apache, perché una volta mi lamentai con il tenente Purington dicendogli che avevo intenzione di riferire al governo che aveva preso un po' del mio denaro del bestiame e che lo aveva messo nel fondo degli apache, e il tenente rispose che non gliene importava niente é che lo raccontassi pure. . Parecchi anni fa sono cessate le distribuzioni di vestiario. Può darsi che anche questo sia stato un ordine del governo, ma gli apache non capiscono queste cose.
Se c'è un fondo apache, dovrebbe una volta o l'altra essere assegnato agli indiani o almeno se ne dovrebbe rendere conto agli indiani, perché si tratta dei loro guadagni.
L'ultima volta che il generale Miles visitò Fort,Sill gli chiesi di essere esone~ato dal lavoro data la mia età. Ricordai anche quel che il generale Miles mi aveva promesso nel patto e gliene parlai. Disse che non era più necessario che lavorassi, eccetto quando lo desideravo, e da quel momento non mi è più stato assegnato nessun lavoro. Da allora ho però ancora lavorato moltissimo, per quanto sia vecchio, perché mi piace lavorare e aiutare la mia gente fintanto che riesco.
LA RESA DI GERONIMO
L'undici febbraio 1887 il senato approvò la seguente deliberazione:
« Si delibera che il segretario della Guerra riceva l'ordine di comunicare al senato tutti i dispacci del generale Miles concernenti la capitolazione di Geronimo, tutte le istruzioni date al generale Miles e la corrispondenza con il medesimo riguardo a tali argomenti». Questi scritti sono pubblicati nei documenti esecutivi del senato, seconda sessione, 49° congresso, 1886-7, volume II, n. 111-125.
Assumendo il comando del dipartimento dell'Arizona, il generale Nelson A. Miles ricevette dal dipartimento della Guerra l'ordine di usare il massimo vigore per distruggere o far prigionieri gli apache ostili.
I seguenti brani sono tolti da istruzioni emesse il 20 aprile 1886 per dare informazioni e direttive alle truppe che operavano nella parte meridionale dell'Arizona e del Nuovo Messico. « Obiettivo principale delle truppe sarà di far prigioniera o distruggere qualsiasi banda di indiani apache ostili trovati in questa parte del paese, e a questo fine si richiedono a tutti gli ufficiali e soldati gli sforzi più vigorosi e persistenti finché non sia stato adempiuto lo scopo. »
« Si userà un numero sufficiente di indiani degni di fiducia come ausiliari, per scoprire ogni traccia di indiani ostili, e come inseguitori. »
« Per evitare che gli indiani acquistino vantaggio servendosi di cavalli di ricambio, quando il comandante di un battaglione di uno squadrone è vicino a indiani ostili, sarà giustificato se farà smontare metà dei suoi uomini e sceglierà i migliori e più veloci cavalleggeri per inseguirli con la massima rapidità e risolutezza, finché sia stata esaurita la forza di tutti gli animali a sua disposizione. »
I seguenti telegrammi mostrano gli sforzi delle truppe degli Stati Uniti e la cooperazione delle truppe messicane sotto il governatore Torres:
Quartier generale della divisione del Pacifico Presidio di San Francisco, California 22 luglio 1886
AIUTANTE GENERALE Washington, DC Il seguente telegramma è appena arrivato dal generale Miles:
Il capitano Lawton riferisce, per mezzo del colonnello Royall, che comanda il forte Huachuca, che le sue truppe hanno sorpreso il campo di Geronimo sul fiume Yongi, a più di duecento chilometri a sudest di Campas (Sonora), ossia a circa quattrocentottanta chilometri a sud del confine messicano, e si sono impadronite di tutto quanto era in possesso degli indiani, comprese centinaia di chili di carne secca e diciannove cavalcature. È la quinta volta in tre mesi che gli indiani si lasciano sorprendere dalle truppe. Benché gli effetti non siano risolutivi, ciò ha tuttavia incoraggiato i soldati, ha ridotto il numero e la forza degli indiani, e ha dato loro un senso d'insicurezza persino nelle remote e quasi inaccessibili montagne del Vecchio Messico.
In assenza del comandante di divisione
C. McKEEVER Assistente dell'aiutante generale
Presidio
Quartier generale della divisione del Pacifico di San Francisco, California 19 agosto 1886
AIUTANTE GENERALE Washington, DC
Ricevuto dal generale Mi1es, in data 18, quanto segue:
Dispacci di oggi dal governatore Torres, datati da Hermosillo (Sonora, Messico), e dai colonnelli Forsyth e Beaumont, comandanti dei distretti di Huachuca e Bowie, confermano quanto segue: Geronimo con quaranta indiani sta tentando di negoziare la pace con le autorità messicane nel distretto di Fronteraz. Uno dei nostri esploratori, ritornando a Fort Huachuca dal comando di Lawton, incontrò lui, Naiche e altri tredici indiani che si avviavano a Fronteraz, e ebbe con loro una lunga conversazione. GH dissero che desideravano concludere la pace; apparivano sfiniti e affamati. Geronimo aveva il braccio destro fasciato e al collo. Lo splendido lavoro delle truppe sta evidentemente ottenendo buoni risultati.
Se gli indiani ostili non dovessero arrendersi alle autorità messi cane, c'è il comandò di Lawton che si trova a sud di loro, e c'è Wi1der, con truppe G e M, Quarto Cavalleria, che si sposta a sud verso Fronteraz, e la raggiungerà il 20. Il tenente Lockett sarà domani in buona posizione vicino al canan Guadalupe, nelle montagne del canan Bonito. L'undici ho avuto un incontro molto soddisfacente con il governatore Torres. Gli ufficiali messicani agiscono d'accordo con i nostri.
O. O. Howard Maggiore generale
Il generale 0.0. Howard telegrafò dal presidio di San Francisco (California) il 24 settembre 1886 quanto segue:
... Il generale Miles riferisce che il 6 settembre gli apache ostili hanno iniziato trattative per la resa con il capitano Lawton, per il tramite del tenente Gatewood. Desideravano certe clausole e mandarono due messaggeri al generale Miles.
Furono informati che dovevano arrendersi sul campo come prigionieri di guerra alle truppe.
Promisero di arrendersi al generale Miles in persona, e per undici giorni gli uomini del capitano Lawton sono andati verso nord, mentre Geronimo e Naiche si muovevano parallelamente e sovente si accampavano vicino.... Al canan dello Scheletro si fermarono, dicendo che desideravano vedere il generale Miles prima di arrendersi.
Dopo l'arrivo di Miles, riferisce quanto segue:
Geronimo arrivò dal suo campo di montagna tra le rocce e disse che era disposto a arrendersi.
Gli fu detto che potevano capitolare come prigionieri di guerra; che non era nelle abitudini degli ufficiali dell' esercito uccidere i nemici che deponevano le armi.
'" Naiche era fuori di sé, sospettoso, evidentemente timoroso di essere tradito. Sapeva che il capo Mangus-Colorado, un tempo famoso, era stato anni fa ignobilmente assassinato dopo che si era arreso; l'ultimo capo ereditario degli apache ostili esitava a mettersi nelle mani dei visi pallidi...
Continuando il suo rapporto, il generale Howard dice:
... Dai rapporti ufficiali credetti dapprima che la resa fosse senza condizioni, eccetto che le truppe non avrebbero ucciso gli indiani ostili. Ora, stando ai dispacci del generale Miles e al suo rapporto annuale, spedito il 21 del corrente mese per posta, le condizioni sono chiare:
primo, la vita di tutti gli indiani deve essere risparmiata; secondo, devono essere mandati a Fort Marion, in Florida, dove è già stata portata la loro tribù, comprese le loro famiglie...
D.S. Stanley, generale di brigata, telegrafa da San Antonio (Texas), il 22 ottobre 1886, quanto segue:
... Geronimo e Naiche mi chiesero un incontro appena furono informati che dovevano andarsene di qui, e parlando con loro spiegai esattamente a che cosa erano destinati. Essi giudicarono la separazione dalle famiglie Una violazione dei termini del trattato di resa. in cui si erano date loro assicurazioni, nel modo più preciso cancepibile dalle loro menti, che sarebbero stati riuniti alle famiglie a Fort Marion.
Alla loro conversazione con me erano presenti il maggiore medico l.P. Wright, dell'esercito degli Stati Uniti; il capitano J.G. Balance, facente funzione di presidente del tribunale militare, dell'esercito degli Stati Uniti; l'interprete George Wratton; Naiche e Geronimo. Gli indiani furono divisi dalle loro famiglie in questo luogo; le donne, i bambini e i due esploratori furono messi in un vagone separato alla partenza.
In Un incontro con me hanno esposto i seguenti fatti, che considerano parte essenziale del}oro trattato di capitolazione, e che avvennero al canyon dello Scheletro prima che; come banda, avessero preso la risoluzione di arrendersi e prima che chiunque di loro, eccetto forse Geronimo, avesse consegnato le armi, quando cioè erano ancora pienamente in grado di fuggire e di difendersi.
Il generale Miles disse loro: « Verrete con me a Fort Bowie e in un determinato momento andrete a vedere i vostri parenti in Florida ».
Quando furono arrivati a Fort Bowie, egli li rassicurò di nuovo che avrebbero visto la famiglia in Florida dopo quattro giorni e mezzo o cinque.
Mentre erano al canyon dello Scheletro il generale Miles disse loro: « Sono venuto a fare una chiacchierata con voi ». Tale conversazione fu interpretata dall'inglese nello spagnolo e dallo spagnolo in lingua apache, e viceversa. L'interprete dall'inglese ano spagnolo era un uomo di nome Nelson. L'interprete dallo spagnolo all'apache era José Maria Yaskes. Era presente anche José Maria Montoya, che però non fece mai da interprete. Erano anche presenti il dottor "\Wood dell'esercito degli Stati Uniti e il tenente Clay, del Decimo Fanteria. Il generale Miles disegnò una riga per terra e disse: « Questa rappresenta l'oceano». Poi, mettendo un ciottolo vicino alla linea, disse:
« Questo sasso rappresenta il posto dove si trova Chihuahua con la sua banda». 'Poi raccolse un'altra pietra e la collocò poco lontana dalla prima, e disse: « Questa rappresenta te, Geronimo ». Poi prese un terzo sassolino, lo mise a poca distanza dagli altri, e disse: « Questo rappresenta gli indiani di Camp Apache. Il Presidente vuole prendervi e mandarvi con Chihuahua » Raccolse allora la pietra che rappresentava Geronimo e la sua banda e la collocò vicino a quella che rappresentava Chihuahua a Fort Marion.
Dopo aver fatto questo raccolse la pietra che rappresentava gli indiani di Camp Apache e la mise accanto alle altre due che rappresentavano Geronimo e Chihuahua a Fort Marion, e disse:
« Questo è ciò che il Presidente vuole fare, avervi tutti riuniti» o Dopo il loro arrivo a Fort Bowie il generale Miles disse loro: « Da questo momento in poi desideriamo incominciare una nuova vita», e tenendo sollevata una mano con la palma aperta e orizzontale, vi tracciò linee trasversali con un dito dell'altra mano e disse, indicando la palma aperta: « Questo rappresenta il passato: è- tutto coperto di buche e solchi». Infine, fregando insieme le palme delle due mani, disse: « Questo significa che cancelliamo il passato, che sarà considerato liscio e dimenticato ».
L'interprete Wratton dice di essere stato presente e di avere ascoltato questa conversazione.
Gli indiani dicono che era presente anche il capitano Thompson, del Quarto Cavalleria.
Naiche raccontò che il capitano Thompson, che faceva le funzioni di assistente aiutante maggiore (dipartimento dell'Arizona), gli disse a casa sua a Fort Bowie: « Non aver paura; non vi capiterà nulla di male. Andrete davvero dai vostri amici».
Disse loro anche: « Fort Marion non è un posto molto grande, e probabilmente non basterà per tutti; forse tra sei mesi sarete mandati in un luogo più grande, dove starete meglio ». Ripeté la stessa cosa quando partirono nei vagoni da Fort Bowie.
Questa lettera esprimente l'idea che gli indiani si erano fatta del trattato di resa è inoltrata a loro richiesta e, pur non desiderando fare commenti in proposito, sento l'obbligo di dire che la mia conoscenza del carattere degli indiani, le esperienze avute con ogni sorta di indiani, e le circostanze e i fatti corroboranti che mi sono stati riferiti in questo caso particolare, mi convincono che le affermazioni sopra esposte di Naiche e di Geronimo sono sostanzialmente corrette.
Estratto del rapporto annuale (1886) della divisione del Pacifico, comandata dal maggior generale 0.0. Howard, dell'esercito degli Stati Uniti.
Quartier generale della divisione del Pacifico Presidio di San Francisco, California 17 settembre 1886
AIUTANTE GENERALE Esercito degli Stati Uniti Washington D. C.
Generale: ho l'onore di sottoporre il seguente rapporto sulle operazioni militari e k condizioni della divisione del Pacifico all'informazione del luogotenente generale e di offrire qualche consiglio alla sua considerazione:
Il 17 maggio 1885 un gruppo di una cinquantina di prigionieri chiricahua, guidati da Geronimo. Naiche e altri capi fuggirono dalla riserva White Mountain nell' Arizona e iniziarono una serie di assassinii e di rapine che non hanno precedenti nella storia delle razzie indiane.
Da quel momento in poi, e fino a quando io ho assunto il comando di questa divisione, erano stati inseguiti dai soldati con successo variabile.
Dopo l'assassinio del capitano Crawford, l'undici gennaio, da parte dei messi cani, i ribelli chiesero un abboccamento, e ebbero finalmente un colloquio il 25, 26 e 27 marzo con il generale Crook, nel Canan de los Embudos, quaranta chilometri a sud di San Bernardino nel Messico;
nell'ultimo dei colloqui fu convenuto che gli indiani sarebbero stati accompagnati dal tenente Manus, con il suo battaglione di esploratori a Fort Bowie (Arizona).
La marcia incominciò il mattino del 28 marzo e continuò fino alla sera del 29, quando, turbati dal timore di possibili punizioni, Geronimo e Naiche, con venti uomini, quattordici donne e due ragazzi fuggirono sulle montagne. Il tenente Manus li inseguì immediatamente, ma senza risultati.
Contemporaneamente alla mia assunzione del comando della divisione il generale di brigata Crook fu sostituito dal generale di brigata Miles, che si accinse subito a portare a termine l'opera iniziata dal predecessore.
Geronimo e la sua banda andavano compiendo saccheggi, ora negli Stati Uniti ora nel Messico; essendo separati in piccoli gruppi, sfuggivano facilmente alle truppe e proseguivano la loro opera di assassini e di fuorilegge.
Al principio di maggio il generale Miles suddivise la zona ostile delle operazioni in distretti, con istruzioni specifiche di sorvegliare i pozzi d'acqua, di far percorrere da gruppi di esploratori l'intero territorio, di non concedere tregua agli avversari.
Furono organizzate truppe al comando del capitano Lawton del Quarto Cavalleria per un lungo inseguimento.
Il 3 maggio il capitano Lebo del Decimo Cavalleria ebbe uno scontro con la banda di Geronimo a una ventina di chilometri a sudovest di Santa Cruz nel Messico; perdette due soldati, uno ucciso e uno ferito. Dopo questo combattimento gli indiani si ritirarono verso sud seguiti da tre squadroni di cavalleria.
n 12 maggio un duro combattimento tra truppe messicane e indiani ostili vicino a Planchos nel Messico terminò con una parziale sconfitta dei messicani.
Il 15 maggio le truppe del capitano Hatfield ingaggiarono battaglia con la banda di Geronimo nelle montagne Corrona, subendo perdite:
due morti, tre feriti e parecchi cavalli e muli;
gli indiani persero parecchi dei loro.
Il 16 maggio il tenente Brown, del Quarto Cavalleria, si scontrò con l'avversario vicino a Buena Vista nel Messico, impadronendosi di parecchi cavalli e fucili, e di munizioni in quantità.
La solita serie di provocazioni, con un faticoso inseguimento da parte dei soldati, continuò fino al 21 giugno, quando i messi cani ingaggiarono combattimento con gli avversari a circa sessantacinque chilometri a sudest di Magdalena (Messico) e dopo una lotta accanita li respinsero...
Verso la metà d'agosto la banda di Geronimo era realmente ridotta di numero in seguito all'incessante e tormentoso inseguimento dei soldati, che offrì di arrendersi ai messicani, ma senza scendere a patti.
Conosciuta così con sicurezza la loro posizione, le truppe furono rapidamente disposte in modo da agire di comune accordo con i messicani per intercettare Geronimo e costringer}o alla resa.
Il 25 agosto Geronimo, quando si accorse, vicino a Fronteraz, di essere quasi completamente accerchiato, essendo senza munizioni e viveri, aprì le trattative di resa con il capitano Lawton, per mezzo del tenente Gatewood del Sesto Cavalleria. Voleva determinate clausole, ma fu informato che non sarebbe stato accettato altro che la resa come prigioniero di guerra.
Gli indiani allora si avvicinarono al comando del capitano Lawton vicino al caiion dello Scheletro e mandarono a dire che desideravano vedere il generale Miles.
Il 3 settembre il generale Miles arrivò al campo di Lawton, e il 4 settembre Naiche, figlio di Cochise e capo ereditario degli apache, si arrese con Geronimo e con tutti gli indiani ostili, con l'intesa, pare, che sarebbero stati mandati in Arizona. Non sono informato dei termini esatti di questa capitolazione, dapprima creduta senza condizioni...
Mi dichiaro, signore, suo ubbidiente umilissimo servitore.
0.0. Howard Maggiore generale dell' esercito degli Stati Uniti
SPERANZE PER IL FUTURO
Sono riconoscente al presidente degli Stati Uniti che mi ha permesso di raccontare la mia storia.
Spero che lui e quelli che sono al potere sotto di lui leggano la mia storia e giudichino se il mio popolo è stato trattato in modo giusto.
C'è una questione importante tra gli apache e il governo. Per vent'anni siamo stati tenuti prigionieri di guerra per un trattato concluso tra il generale Miles da parte del governo degli Stati Uniti e me, come rappresentante degli apache. Questo patto non sempre è stato osservato scrupolosamente dal governo, per quanto in questi ultimi tempi il governo si attenga più strettamente alle clausole di -quanto avesse fatto finora. Nel trattato con il generale Miles noi acconsentimmo a recarci in un posto fuori dell'Arizona e a impararvi a vivere alla maniera dei bianchi. lo penso che ormai la mia gente sia capace di vivere conformemente alle leggi degli Stati Uniti; ci piacerebbe quindi avere la libertà di ritornare nella terra che è nostra per diritto divino.
Siamo ridotti di numero, e avendo imparato a coltivare il suolo non ci occorrerebbe tutto quel terreno che una volta ci era necessario.
Non chiediamo tutta la terra che l'Onnipotente ci diede al principio, ma che ci siano concessi là terreni sufficienti da coltivare. Quel che non ci occorre, siamo soddisfatti che lo coltivino gli uomini bianchi.
Siamo ora tenuti su territorio comanche e kiowa, che non è confacente alle nostre necessità: queste terre e questo clima si confanno naturalmente agli indiani che abitavano originariamente questo paese, ma qui il nostro popolo sta calando di numero, e continuerà a diminuire se non gli sarà permesso ritornare nella sua terra nativa. Questa è un'inevitabile conseguenza.
A mio parere, nessun dima e nessun terreno sono pari a quelli dell' Arizona. In quei territori che l'Onnipotente ha creato per gli apache, potremmo avere in abbondanza un suolo fertile da coltivare, e una grande quantità di erba, di legname, di minerali. È la mia terra, la mia patria, il suolo dei miei padri, e in questa chiedo ora il permesso di ritornare. Desidero passare là i miei ultimi giorni, e essere sepolto in mezzo a quelle montagne. Se ciò fosse possibile, morirei in pace presentendo che là il mio popolo, portato nelle sue sedi native, crescerebbe di numero invece di diminuire come adesso, e che il nostro nome non si estinguerebbe.
So che il mio popolo, se fosse insediato in quella regione montagnosa che si estende intorno al corso superiore del fiume Gila, vivrebbe in pace e agirebbe conformemente alla volontà del Presidente. Sarebbe prospero e felice coltivando il suolo e imparando la civiltà degli uomini bianchi che ora rispetta. Se soltanto potessi veder succedere questo, credo che dimenticherei tutti i torti che ho ricevuto e che invecchierei e morirei felice e soddisfatto. Ma a questo riguardo noi non possiamo fare niente, dobbiamo aspettare che chi è al potere si decida a agire. Se questo non si può fare mentre sono ancora vivo io, se devo morire in prigionia, spero che ai resti della tribù apache possa essere concesso, quando non ci sarò più, l'unico privilegio che chiedono, quello di ritornare nell' Arizona.